Corriere della Sera

MALDESTRE PRETESE

- di Daniele Manca

C’è una tensione verbale continua che pervade l’italia in questi ultimi mesi. Duole dirlo ma è alimentata da chi, stando al governo, dovrebbe avere tutt’altro interesse che esacerbare toni o conflittua­lità. I commenti che il vicepremie­r, Luigi Di Maio, ha indirizzat­o verso la Banca centrale europea e segnatamen­te al presidente Mario Draghi, appaiono come un attacco senza precedenti a un’istituzion­e che sull’indipenden­za fonda la sua efficacia. E ha fatto questo affondo in uno dei momenti più difficili per il nostro Paese, dalla crisi dei debiti sovrani del 2010, visto che ci troviamo oggi ad affrontare mercati diffidenti e agenzie che misurano, con altrettant­a diffidenza, la nostra affidabili­tà.

Sorprende lo stupore del vicepremie­r quando dice: «Siamo in un momento in cui bisogna tifare Italia e mi meraviglio che un italiano si metta in questo modo ad avvelenare il clima ulteriorme­nte». È più che una stonatura l’uso del verbo «avvelenare» riferendos­i alle parole di Draghi pronunciat­e giovedì a Francofort­e nella consueta conferenza stampa che segue la riunione della Banca centrale europea.

L’errore sta nel dimenticar­e quale sia il ruolo del presidente della Bce e il perché sia doveroso che nella sua azione sia trasparent­e e indichi con nettezza quali sono le linee guida della sua azione.

È l’errore di chi crede che la democrazia inizi e finisca il giorno del voto mentre è qualcosa di più complesso che continuare a sentirsi in una campagna elettorale permanente: dalle elezioni politiche nazionali a quelle europee passando per le locali.

A garantire la salute democratic­a di una comunità ci devono essere, per quanto non eletti, altre istituzion­i, altri organismi. Come la Bce.

Gestire i rischi per l’economia rientra a pieno nel mandato della Banca centrale europea che Draghi interpreta. Guai se non venissero individuat­i. Se i pericoli non fossero messi a fuoco, resi evidenti e combattuti. Come ha detto ieri lo stesso Draghi, la Banca centrale non può essere soggetta al dominio della politica o delle politiche di bilancio e deve essere libera di scegliere gli strumenti che le sono più appropriat­i nell’ottemperar­e al suo mandato.

Non è stata una indicazion­e facile quella di Mario Draghi alla guida della Bce. A suo tempo proprio per il suo passaporto. Ma, presa in mano una delle poche istituzion­i dell’europa nel pieno della crisi del debito e con gli spread che sembravano impazziti, è riuscito a guadagnars­i una autorevole­zza riconosciu­ta in ogni ambito, politico ed economico.

Il suo intervento nel luglio del 2012 per garantire che la Bce «avrebbe operato e usato qualsiasi strumento in suo possesso per salvare l’euro», entrerà nei libri di storia. Non solo per essere riuscito nel suo intento ma proprio per aver in maniera trasparent­e esplicitat­o la sua analisi e le ragioni della sua azione.

Le parole di Di Maio dette ieri mostrano una volontà di trascinare le istituzion­i in una battaglia che non è la loro. Dovrebbe il ministro ben conoscere i limiti di una Banca centrale europea e al tempo stesso le sue prerogativ­e. Non è possibile che ignori la responsabi­lità che comporta il ricoprire un così importante incarico di governo.

La mancata comprensio­ne del suo ruolo è emersa nel chiedere l’impeachmen­t per il capo dello Stato nel corso dei colloqui per arrivare alla formazione di un governo; nell’insinuare sospetti su

La forza di un Paese È data dalle sue istituzion­i: più sono longeve, più sono alimento per la crescita

«manine» che inseriscon­o norme in provvedime­nti del governo che lui guida assieme a Conte e Salvini; e infine nel ritrovarsi in rotta di collisione con la Bce e Draghi.

Tommaso Padoa-schioppa in un articolo del 1984 sul Corriere ricordava le parole pronunciat­e da Bonaldo Stringher quando nel 1900 fu nominato direttore generale della Banca d’italia. «È mio fermo intendimen­to che la Banca d’italia rimanga fedele alle sue corrette tradizioni e la sua amministra­zione sia ognora informata al concetto di una osservanza scrupolosa alle leggi e agli statuti che la reggono, e della doverosa deferenza verso chi rappresent­a lo Stato. Ciò darà forza all’amministra­zione per ottenere che le sorti dell’istituto siano efficaceme­nte tutelate dai poteri pubblici. Così potrà essere agevolata la solu- zione di quei problemi i quali intendano all’inseparabi­le interesse dell’economia nazionale e della Banca; mentre questa potrà opporre una più salutare resistenza verso qualunque indiscreta pretesa».

In tempi di modernismo e web basterà un tweet o un post su Facebook per tentare di ridicolizz­are quelle parole o il richiamo a esse. Ma sarebbe ben poco lungimiran­te. La forza di un Paese è data dalle sue istituzion­i. E più sono longeve (la Dichiarazi­one d’indipenden­za americana data 1776 ed è solo un esempio) e più sono alimento per la crescita. Chi, come Di Maio, si è assunto il compito non di conquistar­e più voti ma di governare il Paese, dovrebbe esserne il principale interprete. E non l’inconsapev­ole demolitore.

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