Corriere della Sera

Di Segni, l’ultimo testimone

Morto a 91 anni Di Segni: era l’ultimo superstite. Il ritorno dall’orrore di Auschwitz

- di Gian Antonio Stella

E adesso? Adesso nessuno potrà raccontare più: «Io c’ero». Lello Di Segni, l’ultimo dei sedici ebrei tornati vivi dai campi di sterminio dopo il rastrellam­ento di Roma del 16 ottobre 1943, se n’è andato. Restano le testimonia­nze lasciate nei libri, nei documentar­i tivù, nelle interviste ai giornali di chi ha conosciuto quei rari sopravviss­uti. Ma l’ultimo testimone diretto di quella spaventosa retata non c’è più.

Aveva quasi 92 anni ma portava ancora il numero che i nazisti gli avevano marchiato nella carne nel lager di Auschwitz-birkenau: 158526. «Così dovevo essere chiamato, 158526», raccontò un giorno a Marcello Pezzetti, lo storico che ne Il libro della shoah italiana ha raccolto tante preziose e tragiche testimonia­nze, «come un cavallo. Su un lato del mio vestiario c’era il mio numero de bestia».

Come altri segnati dall’orrore di quella esperienza, non tornava spesso su quei ricordi. Troppo strazio. La sera prima della retata, spiegò allo storico Umberto Gentiloni, c’erano stati «dei mitragliam­enti, delle bombe a mano con esplosioni, in modo che noi ebrei impauriti rimanessim­o a casa senza uscire». Poi, la mattina presto, senza avvertire neppure il rumore delle camionette, sentirono bussare alla porta: «C’erano le SS con i mitra in mano. Non mi ricordo se erano due o tre persone in divisa. Uno di loro aveva un foglietto».

Erano le istruzioni, in un italiano approssima­tivo, per i poveretti destinati alla deportazio­ne: «1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenen­ti alla vostra casa sarete trasferiti. 2. Bisogna portare con sé: a) viveri per almeno otto giorni; b) tessere annonarie; c) carta d’identità; d) bicchieri. 3. Si può portare via: a) valigetta con effetti e biancheria personale, coperte; b) denaro e gioielli…». Da brividi, nella sua burocratic­a banalità assassina, il punto 4: «Chiudere a chiave l’appartamen­to e prendere con sé le chiavi».

«I nazisti avevano in mano gli elenchi di tutti gli ebrei di Roma, uno per uno, completi di indirizzo», scrive in Portico d’ottavia 13: Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43, la storica Anna Foa, «Avevano diviso la città in 26 zone “operative” e in ognuna di esse si sviluppava contempora­neamente la razzia, che aveva lo scopo di arrestare la maggior parte degli ebrei presenti in quel momento in città».

«Eravamo tutti e sei in casa: io, mio padre, mia madre e tre fratelli: Angelo, Mario e Graziella», racconterà Di Segni ad Alessandro Ferrucci, de Il Fatto, «si sono presentati e con una lista di nomi hanno iniziato a perlustrar­e le stanze, convinti che nascondess­imo qualcuno. Dentro gli armadi, in soffitta, in cantina. Niente. C’eravamo solo noi, gli altri parenti erano scappati le settimane precedenti. Poi con il mitra dietro la schiena siamo scesi in strada e saliti sui camion».

Uomini, donne, vecchi, malati, bambini. Come quelli che, ammucchiat­i su due o tre camion, si conficcaro­no per sempre nella memoria di Fulvia Ripa di Meana, che quel 16 ottobre del ’43, come avrebbe scritto in Roma clandestin­a, stava passando in via Fontanella Borghese: «Ho letto nei loro occhi dilatati dal terrore, nei loro visetti pallidi di pena, nelle loro manine che si aggrappava­no spasmodich­e alla fiancata del camion, la paura folle che li invadeva, il terrore di quello che avevano visto e udito, l’ansia atroce dei loro cuoricini per quello che ancora li attendeva. Non piangevano neanche più quei bambini, lo spavento li aveva resi muti e aveva bruciato nei loro occhi le lacrime infantili. Solo in fondo al camion, buttati su un’asse di legno, alcuni neonati, affamati e intirizzit­i gemevano pietosamen­te». Nella notte, a quei neonati, si sarebbe aggiunto il piccolo partorito nel Collegio Militare da Marcella Perugia. Rimasto senza nome.

Nessuno di quei bambini, come hanno ricostruit­o ne Il futuro spezzato / I nazisti contro i bambini Lidia Beccaria Rolfi e Bruno Maida, tornò. Nessuno: ad Auschwitz «solo Fiorella Anticoli si salva, passando la “selezione”. Un anno dopo, nel novembre 1944, viene evacuata da questo campo e trasferita a Bergen Belsen. Sarà l’unica bambina ebrea italiana a sopravvive­re a 18 mesi nei campi di sterminio. Alla liberazion­e di Belsen, il 26 aprile 1945, un soldato alleato scatta una fotografia di Fiorella in mezzo a un gruppo di ex deportati, e questa immagine fa il giro del mondo dei giornali: a Roma anche il padre, Marco Anticoli, la vede e comincia a sperare». Ma la piccola non ce la fa. E muore, «sfinita dai patimenti e dalla denutrizio­ne», prima di abbracciar­e il padre, il 31 maggio 1945, nell’ospedale di Bergen Belsen. Lo stesso campo dove era morta Anna Frank.

Caricato sui vagoni piombati alla stazione Tiburtina, deportato con tutti gli altri ad Auschwitz e smistato infine nel «KL Warschau», il campo di concentram­ento di Varsavia, Lello Di Segni fu avviato a lavorare al recupero di quanto poteva essere utile ai nazisti tra le rovine di quello che era stato il ghetto della capitale polacca, ghetto devastato dopo un’eroica resistenza. Racconterà al nostro Paolo Brogi: «Mi avevano messo lì a scavare e mi ritrovavo tra le mani forchette, bicchieri, coltelli, oggetti di uso quotidiano che erano stati seppelliti insieme agli ebrei che li avevano usati…».

Solo quindici uomini e una donna tornarono dai campi di sterminio, come dicevamo, di tutti gli ebrei razziati quella mattina a Roma. Si chiamavano Michele Amati, Lazzaro Anticoli, Enzo Camerino, Luciano Camerino, Cesare Di Segni, Lello Di Segni, Angelo Efrati, Cesare Efrati, Sabatino Finzi, Ferdinando Nemes, Mario Piperno, Leone Sabatello, Angelo Sermoneta, Isacco Sermoneta, Settimia Spizzichin­o, Arminio Wachsberge­r. E ricordare i loro nomi, oggi che se ne sono andati tutti, è l’ultimo modo per rendere loro onore.

Il numero Raccontava: «Dovevo essere chiamato 158526, come se fossi un cavallo, una bestia»

Lo sterminio Di tutti gli ebrei vittime del raid delle SS tornarono solo 15 uomini e una donna

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Il tatuaggio Lello Di Segni era nato il 4 novembre del 1926: i nazisti lo portarono via da casa sua in via Sant’ambrogio, nel Ghetto di Roma (foto a sinistra in bianco e nero), assieme ai genitori e ai fratelli. Internato ad Auschwitz, riuscì a sopravvive­re

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