Corriere della Sera

Caro Aldo,

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ho 30 anni e vorrei rivolgerle una domanda. Secondo lei, abbiamo aspettato troppo? Lo so, la seconda persona plurale forse è una esagerazio­ne, ma se mi guardo intorno di coetanei con i miei stessi dubbi ne trovo molti. Ci siamo laureati quando la crisi era appena scoppiata, quindi l’idea di avere il futuro spianato non era nel nostro backup; abbiamo imparato le lingue viaggiando, lasciando il nido da bamboccion­i, andando in Erasmus, iniziando a fare le prime maratone di serie televisive in lingua originale e, se si era abbastanza tenaci, leggendo la stessa notizia sui giornali spagnoli, inglesi e francesi. Non lo facevamo perché sapere le lingue era importante per il curriculum, o almeno non solo, ma perché era bello, ci arricchiva, ci rendeva delle persone più colte. Alcuni di noi sono partiti e non sono più tornati; altri hanno deciso di mettere su famiglia, e altri ancora hanno continuato a girare, immaginand­o che, una volta tornati, tutto quello che avevano imparato li avrebbe resi dei cittadini del mondo. Più informati, più liberi, con una coscienza politica europea... Secondo lei, abbiamo viaggiato troppo? Com’è possibile che se oggi si parla di una narrativa europea, la prima cosa che molte persone pensano sono un gruppo di uomini in giacca e cravatta con in mano una paletta da vigile, per dirci se un conto va bene, oppure no? Michele Rocca Milano

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