Il made in Africa di Calzedonia «La progettazione resta in Italia»
Veronesi inaugura lo stabilimento in Etiopia: 1.100 operaie, operazione da 22 milioni
La bandiera italiana e quella etiope sventolano l’una accanto all’altra. Annunciano l’ingresso a Itaca, il nuovo stabilimento di Calzedonia, a Mekele, sull’altopiano del Tigray, che il patron del gruppo veneto, Sandro Veronesi, è venuto a inaugurare nel giorno del suo 59° compleanno. Bassa e rettangolare, la costruzione s’inserisce armoniosamente in un paesaggio infinito che alterna vallate arse dal sole e colline verdi. Siamo a 2.300 metri, al confine con l’eritrea, da poco riaperto dopo che i due Paesi hanno posto fine allo stato di guerra che durava da vent’anni. In lontananza s’intravedono villaggi di casette basse in lamiera o pietra. «Vengono dalle campagne molte delle 1.100 operaie — saranno 1.500 entro il 2019 —, tutte giovanissime, che già lavorano qui», racconta Federico Fraboni, 30enne ingegnere gestionale, responsabile del progetto Etiopia. «Sono arrivato qui tre anni fa dopo un breve periodo in sede a Verona e un’esperienza negli stabilimenti dello Sri Lanka — spiega —. E da subito mi ha colpito la fierezza di questa gente. Un Paese sostenuto dalle donne».
Anche Veronesi è impressionato dal carattere delle etiopi: «Imparano subito. Il problema l’abbiamo noi con il middle management, che arriva e dice “io sono un ingegnere” mentre il livello tecnico è poco più di una terza media». La nuova fabbrica di Mekele è riservata alla produzione di maglieria, leggins e pigiami (mentre la corsetteria resta nello Sri Lanka). «È chiaro che tutto il prodotto dei nostri brand viene non solo pensato in Italia, ma anche progettato e industrializzato da noi: qui arriva quello che serve per produrlo in maniera industriale, materie prime, disegno e cartamodello — prosegue Veronesi —. Per i nostri brand Tezenis, Calzedonia e Intimissimi non abbiamo mai puntato sul Made in Italy perché si tratta di prodotti di largo consumo, che offrono prezzi molto accessibili e quindi riteniamo coerente una produzione a costi più contenuti». Su un grande nastro tre uomini gestiscono il taglio dei tessuti. Nello spazio accanto, enorme, le ragazze in grembiule blu, accanto alle macchine, cuciono e definiscono i capi nei nuovi tessuti fucsia, rosa cipria e con le rose stampate. Investimento di circa 22 milioni di euro. In quanto tempo si recuperano? «Spero in 4-5 anni. L’assenteismo è bassissimo». I vantaggi? «Niente dazi né con l’europa né con gli Stati Uniti e il trasporto facilitato dalla riapertura del porto di Massaua: fino a poco tempo fa l’unica soluzione era arrivare fino a Gibuti. Grande disponibilità di manodopera e costi energetici bassi. La paga base è di circa 50 euro mensili, in un Paese dove la media stimata è attorno ai 30 euro e i contadini lavorano spesso in cambio del sostentamento alimentare». A Itaca sono i servizi a fare la differenza. «Trasporto e mensa sono gratuiti ed è stata creata una clinica perché non c’è un sistema sanitario e quindi è doveroso occuparci della loro salute», spiega Veronesi, che di fronte alla fabbrica ha creato anche un pozzo di acqua per il paese (Ashegoda, comune di Quiha).
Il ministro dell’industria etiope, Mebrahtu Melese, sottolinea che «già da tempo sono arrivate aziende cinesi, che impiegano manovalanza locale, ma hanno portato da Pechino centinaia di capi-reparto». «Noi invece vogliamo formarli qui — sottolinea Veronesi —. E li facciamo venire a Verona per perfezionarsi». «Speriamo che questo progetto faccia da apripista per altre aziende italiane — chiude il segretario dell’ambasciata di Addis Abeba, Pietro Panarello —. Servono esperienza e tecnologie».
Contenere i costi «Si tratta di prodotti di largo consumo, con prezzi molto accessibili»