Corriere della Sera

«Il violino in regalo e mio padre disse: per la musica lui non è portato»

L’infanzia di Riccardo Muti: era un’italia felice

- Di Valerio Cappelli

AMolfetta, la notte di Natale del 1948 un bambino di 7 anni, ricevette in dono un violino. Quel bambino era Riccardo Muti. L’episodio è citato nella prima pagina di Giuro che non avrò più fame, il libro di Aldo Cazzullo sull’«italia della Ricostruzi­one». Domattina alle 11 il celebre direttore, insieme con l’autore, lo presenta al San Carlo di Napoli, dove il 25 novembre dirigerà il Così fan tutte di Mozart.

Maestro, ricorda quell’episodio?

«Sì, io piansi perché volevo un fucile di legno con il tappo. Mio padre, sconsolato, commentò: "Riccardo non è portato per la musica." Nelle famiglie all’epoca si riteneva che fosse un pane spirituale. Noi siamo cinque fratelli e tutti avevamo l’obbligo di studiare uno strumento. Mio padre era medico, aveva una voce tenorile, il senso dell’opera l’ho imparato da lui». Lascia o La musica Riccardo Muti con il suo violino: gli venne regalato per Natale nel 1948, quando aveva 7 anni. L’episodio è nel libro «Giuro che non avrò più fame» di Aldo Cazzullo raddoppia? con Mike Bongiorno, i cinema interrompe­vano le proiezioni collegando­si alla tv, e le case si riempivano di amici e parenti, perché l’avevano in pochi».

Come ci si spostava?

«A Molfetta non c’erano nemmeno i semafori. Mio padre per lavoro si spostava in calesse, e in famiglia avevamo la carrozza, andavamo a vedere i fuochi d’artificio delle feste patronali a Bisceglie o Andria. Il cavallo aveva un nome umano, si chiamava Mauro, quando entravamo nella stalla ci riconoscev­a e nitriva. Ricordo una gita a Castel del Monte. Dormimmo in carrozza tutta la notte. Al mattino, con gli occhi del sonno, scostai la tendina e vidi Castel del Monte. La mia passione per Federico II è nata quel giorno. Ho una foto del castello nel mio ufficio dell’orchestra di Chicago».

Poi arrivarono le auto...

«La nostra prima fu una Fiat Giardinett­a: in legno, poi in ferro. La tenevamo in una In classe Riccardo Muti, 77 anni, è nato a Napoli ma ha vissuto l’infanzia in Puglia. Nella foto, alle elementari, in piedi alla destra del maestro, suo nonno Donato specie di garage, usandola solo nelle grandi occasioni. Davanti l’autista e la mamma, dietro mio padre con i miei due fratelli maggiori. Io e i due gemelli eravamo sistemati in un panchetto di legno nel portabagag­li. Le valigie erano fissate con le corde, come si vede nei film neorealist­i».

C’era l’ossessione del cibo.

«Si cucinava tutto il giorno dopo aver conosciuto la fame. Non si gettava via nulla, quello che restava sul piatto veniva riciclato il giorno dopo. Mio nonno si arrabbiava se tagliavo la mela male: che fai, la butti? La carne si mangiava una volta alla settimana, e il gelato nelle feste speciali, alla Madonna dei Martiri o quando suonava la banda, era un premio raro, costava 5 lire; quello da 20 era una montagna. Noi eravamo fortunati, papà curava tanti pescatori che pagavano in natura».

Sembrano cose di due secoli fa.

«Eh…

 Oggi si comunica con cento parole, mal pronunciat­e e articolate La parola cultura i politici di adesso non la pronuncian­o mai, parlano ogni momento di spread: dominano disinteres­se, noncuranza e ignavia

Il libro

Quel dono di Natale raccontato nel libro di Aldo Cazzullo «Giuro che non avrò più fame»

Il telefono, malgrado la nostra fosse una famiglia dove non mancava nulla, in casa entrò nel 1959, dopo il trasferime­nto a Napoli. I vestiti usava passarseli tra fratelli, venivano rivoltati, come si diceva».

Cosa le manca di quegli anni?

«La sensazione dei profumi che ti davano il senso del tempo. Cazzullo parla dell’odore dei mandarini: si capiva che stava arrivando il 25 dicembre. Ognuno con una forma diversa, non c’era la globalizza­zione della frutta. Il Natale era l’odore dei mandarini per le strade».

Da dove ricostruir­e l’italia di oggi?

«Bisogna recuperare il dialogo. La lingua si sta impoverend­o e la colpa è della tv. Oggi si comunica con cento parole, mal pronunciat­e e articolate. Vengo da Tokyo, dove ho ricevuto il Praemium Imperiale dall’imperatore e dall’imperatric­e che è una pianista. C’è stata una cerimonia shintoista in cui mi sono commosso: i sacerdoti vestiti di bianco, il suono del tamburo e del gong, il collegamen­to tra passato e presente… Alle elementari i bambini giapponesi leggono Cuore di Edmondo De Amicis. A me in Italia colpisce l’assenza della parola cultura, i politici di adesso non la pronuncian­o mai. Parlano ogni momento di spread, una parola inglese. Chi parla più di ricostruir­e Norcia dopo il sisma? Dominano l’ignavia, il disinteres­se, la noncuranza. Siamo più poveri culturalme­nte. Ma la cultura è l’elemento fondativo dell’identità italiana».

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