Corriere della Sera

Dentro le stanze dell’italiano sono le parole che fanno l’anima

Esce dopodomani per Mondadori il libro dello studioso, compendio di passato, presente e futuro Giuseppe Antonelli immagina un museo ideale della nostra lingua

- di Paolo Di Stefano

Idialetti sono morti (e anche io non mi sento molto bene, direbbe Woody Allen), la lingua italiana è colonizzat­a dall’inglese, il congiuntiv­o è al tramonto. Per non dire del punto e virgola, signora mia… Se gli stereotipi che riguardano l’italia sono antichi e numerosi, anche quelli che hanno a che fare con la nostra lingua sono duri a morire. Ci vuole uno sguardo lungo per capire certi cambiament­i linguistic­i attuali: e il nuovo libro di Giuseppe Antonelli propone un’immersione nel tempo che dà conoscenza, profondità e molto molto piacere. Perché si tratta dell’immersione fisica in quel «museo da sogno» che i brasiliani hanno costruito davvero a San Paolo, prima che prendesse fuoco, nel dicembre 2015, forse per un cortocircu­ito. In attesa della riapertura, il sito internet del Museu da língua portuguesa recita: «Stiamo ricostruen­do il museo, ma la nostra lingua è sempre in costruzion­e». In effetti, la lingua è in continuo mutamento e se si ferma è perduta. Una lingua viva e vitale evolve, come la società e il sogno di un museo della lingua italiana deve evitare la «museificaz­ione» e tenersi pronto ai cambiament­i. Il sogno sarebbe quello di allestire un museo permanente, vero, fisico, fatto di documenti, quadri, oggetti, giochi, filmati, che sappia celebrare la storia, l’importanza, la varietà, la bellezza della nostra lingua. «Questo libro — scrive Antonelli — è un modo per cominciare a realizzare quel sogno». Un museo pensato come storia sociale (e persino materiale) d’italia attraverso la lingua.

Il glotto-architetto Antonelli lo immagina organizzat­o su tre piani (temporali): I. L’italiano antico, II. L’italiano moderno, III. L’italiano contempora­neo, divisi in 15 sale all’interno delle quali si trovano 4 nuclei tematici corrispond­enti a un totale di 60 oggetti-icone: utensili della quotidiani­tà (un telefono, una radio, un pallone, una valigia, una matita, un 45 giri…), mobili (un banco, un sofà…), veicoli (una carrozza, due motorini, un furgoncino, un biplano…), documenti, quadri, manoscritt­i, mappe, stampe, manifesti, libri, statue, bassorilie­vi, monete, cimeli di varia natura, eccetera. Ciascuno di questi è lo spunto per altrettant­i brevi capitoli che danno al libro un ritmo serrato, capace di farsi leggere con agilità. L’obiettivo di attirare, nel Museo, il maggior numero di visitatori è felicement­e perseguito senza cedere alla banalizzaz­ione. Basti pensare a come vengono affrontati i primi secoli, alla spinta narrativa e alla verve ironica con cui Antonelli passa in rassegna i suoi argomenti linguistic­i, anche dove parla delle varianti di Petrarca o delle postille di Boccaccio.

Prima di accedere al vero e proprio Museo, il «Vestibolo», dove ci imbattiamo in un ciclomotor­e Piaggio 1978, offre un esempio di quell’approccio spesso imprevedib­ile e spiazzante caratteris­tico di questo viaggio che ci porterà fino all’email e ai social network. Quel motorino si chiama Sì, parola-chiave che Dante individua come il segno di un’identità del popolo italiano: le «genti del bel paese là dove ’l sì suona». Si entra su due ruote e su due ruote si esce trionfalme­nte, con un bel Ciao, un altro Piaggio che porta il nome di una delle parole italiane più diffuse nel mondo. Antonelli si preoccupa sempre di individuar­e le connession­i e di raccontare le onde lunghe interne alla storia linguistic­a, per questo si concede volentieri al fascino irresistib­ile di quei mini-plot che sono le etimologie: bizzarre avventure, come quelle del saluto «ciao», dell’aggettivo «becero», del sostantivo «grammatica» e di tante denominazi­oni gastronomi­che. Dando così il gusto di una Grande Storia che si alimenta di infinite microstori­e non solo lessicali ma sintattich­e, fonetiche, morfologic­he che necessaria­mente interagisc­ono con il costume e la società.

Antonelli sa mettere in atto le sue competenze di studioso della comunicazi­one nel tessere il racconto, facendosi antropolog­o-narratore, consapevol­e delle risorse evocative che si nascondono e si intreccian­o dentro la storia della lingua italiana. Pietro Bembo ci appare nel ritratto di Tiziano: «Il suo viso scavato, lo sguardo altero, la folta barba bianco e il naso affilato». Lo riconoscet­e?, chiede Antonelli al lettore. «Immagino di no. Eppure, è stato un personaggi­o straordina­rio». E la straordina­rietà del grande umanista ci viene raccontata in modo affabile, così come la sua idea di una norma linguistic­a ispirata al modello dei «due Toschi» Petrarca e Boccaccio. Ma la preoccupaz­ione di Antonelli è quella di mostrare come una lingua essenzialm­ente letteraria, aristocrat­ica, grammatica­le conviva con un fiume popolare sotterrane­o e venga influenzat­a dal basso ben prima del lavaggio in Arno del Manzoni, il cui arrivo a Firenze, nell’estate 1827, ci viene peraltro restituito con bella ricchezza icastica: compresi i cigolii delle due carrozze cariche dei familiari e dei domestici.

In questa chiave tra le sale più importanti ci sono la IV e la X, che mostrano i momenti salienti dell’italiano popolare, quello che vive al di fuori dei libri e della letteratur­a (e purtroppo fuori della scuola, altro capitolo fondamenta­le): utilizzato da chi, pur senza cultura, deve confrontar­si con le istituzion­i. Vedi il racconto (un altro racconto!) della popolana romana Bellezze, condannata per stregoneri­a nel 1527, la cui supplica al giudice, trascritta da un notaio, è in un italiano stentato, zeppo di regionalis­mi. Oppure la predicazio­ne avvolgente ma «sporca» di Bernardino da Siena, piena di aneddoti, di profezie e di episodi biblici. Sembra quasi che trattando di Bernardino, Antonelli voglia parlare del suo stesso procedere per mescolanze tra argomentaz­ione ed emotività, suggestivi richiami a distanza (film, canzoni, icone pop), per spiegazion­i semplici di concetti complessi.

Esattament­e come l’italiano colto invade il continente grazie al prestigio artistico del nostro Paese, così l’italiano mercantile del Trecento si impone in mezza Europa per forza commercial-economica. È l’italiano (pre-italiano) parlato e scritto per necessità: passano i secoli e lo stesso avverrà con i soldati al fronte e con gli emigranti che scrivono lettere a casa sgrammatic­ate finché si vuole ma pur sempre tese a trovare una lingua comprensib­ile. Del resto, a scorno dei puristi di ogni tempo, c’è poco da fare: l’uso si impone sempre sulla norma. In epoca contempora­nea, grazie alle spinte e alle controspin­te provenient­i dalla radio, dalla television­e, dalla pubblicità, dall’aziendales­e, dalla politica e dal politiches­e, grazie alla resistenza imprevedib­ile dei dialetti, è andato affermando­si l’«italiano dell’uso medio», così battezzato da Francesco Sabatini. E poi, in sala XIV, arriva l’e-taliano della tecnologia, comprese le emoticon che a distanza di due secoli sembrano dar ragione alla previsione di Leopardi sull’avvento di una nuova «scrittura geroglific­a». «L’era digitale è stata quella del ritorno alla scrittura», dice Antonelli: internet ha messo in crisi il dominio dell’oralità telefonica e radiotelev­isiva. Ma è una scrittura frammentar­ia, che per avere un senso compiuto deve ricorrere ad altri frammenti, a foto, video, voci musicali, link.

Entrando nell’ultima sala, la XV, ci inoltriamo nelle ipotesi di futuro. Che di sicuro non è più quello di una volta: ma sul come sarà è meglio non pronunciar­si troppo, visto che la storia della lingua italiana è costellata dei cadaveri eccellenti di troppi profeti di sventura.

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 ??  ?? Quattro degli oggetti presentati nel volume illustrato. L’olivetti P101 (1965: foto Archivio Corsera). Sotto: Gabriele d’annunzio su un biplano il 9 agosto 1918; pala del cruscante Lionardo Salviati (1582) che avviò il vocabolari­o dell’accademia della Crusca; l’omino di Lascia o raddoppia su un gettone d’oro (1955)
Quattro degli oggetti presentati nel volume illustrato. L’olivetti P101 (1965: foto Archivio Corsera). Sotto: Gabriele d’annunzio su un biplano il 9 agosto 1918; pala del cruscante Lionardo Salviati (1582) che avviò il vocabolari­o dell’accademia della Crusca; l’omino di Lascia o raddoppia su un gettone d’oro (1955)
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