«Notti magiche», gli enigmi di Virzì
I misteri di un produttore, sogni giovanili, mondo del cinema: film tra malinconia e sarcasmo
Con Notti magiche di Paolo Virzì si è conclusa ieri la tredicesima Festa di Roma, confermando l’impasse cui sembra condannata: non più festival dopo l’abolizione del concorso e la rinuncia a una vera attività di scouting (nei fatti, una specie di passerella per i titoli in uscita nei prossimi mesi, con qualche novità non sempre indimenticabile proveniente da filmografie «minori») e mai davvero festa, perché gli «incontri ravvicinati» o le iniziative della neonata Videocittà sembrano fatti più per portare visibilità ai loro organizzatori che non per accendere l’animo di una città che dimostra di avere la testa altrove. Proponendo con sempre maggior urgenza il tema di una qualche radicale rifondazione di un evento ancora prigioniero dell’ambiguità (e dei sogni di grandeur) con cui era stato pensato.
Un po’ la stessa ambiguità, curiosamente, che sembra imprigionare il film di Virzì, a metà ritratto amarognolo e condiscendente dei sogni di Protagonisti
Da sinistra, Mauro Lamantia, Irene Vetere e Giovanni Toscano in una scena del nuovo film di Paolo Virzì «Notti magiche» grandezza della gioventù (i protagonisti di Notti magiche sono tre giovani aspiranti sceneggiatori) e a metà ritratto malinconicamente appassionato di un cinema — e di un modo di farlo — che sembra irrimediabilmente tramontato.
Siamo nel 1990, l’estate in cui si giocano i Mondiali di calcio in Italia, e i tre finalisti del premio Solinas — Antonino (Mauro Lamantia), Luciano (Giovanni Toscano) e Eugenia (Irene Vetere) — arrivano a Roma per sapere chi sarà il vincitore in mezzo al gotha del cinema italiano, tra star con qualche residua voglia trasgressiva (Ornella Muti è una «signora in rosso» che regala un brivido erotico a Luciano) e sceneggiatori pronti ancora a sfidarsi come bambini capricciosi. Anche se in realtà il film inizia qualche settimana dopo, la sera della semifinale tra Italia e Argentina, quando l’auto del produttore Leandro Saponaro (Giancarlo Giannini) finisce nel Tevere con il suo cadavere dentro, dando il via a un’indagine di polizia che vedrà coinvolti anche i tre giovani sceneggiatori e che torna indietro nel tempo, raccontandoci quello che era successo dal momento del loro arrivo nella «capitale del cinema».
La componente autobiografica è evidentissima: il toscano Luciano si presenta con una lettera di raccomandazione dei «compagni di Livorno» come era successo a Virzì per l’esame al Centro Sperimentale, la romana Eugenia ha più di un tratto che ricorda Francesca Archibugi ma è soprattutto il lavoro come anonimi «negri» per i grandi sceneggiatori — Furio (Herlitzka) e Ennio (Bonacelli), trasparenti rimandi a Scarpelli e De Concini — che ricostruisce un mondo e un’atmosfera di cui si sono perse le tracce. Quello che convince meno — al di là del giochino di riconoscere «chi è chi» evidentemente riservato a chi quel mondo ha frequentato e conosciuto — è il tono generale, un po’ partecipe e un po’ disilluso, a volte sarcastico a volte compiaciuto, indeciso su come raccontare un mondo di cui Virzì vede vizi e difetti ma di cui vorrebbe anche prendere le difese, non fosse perché è stato anche il suo. ● Paolo Virzì (Livorno, 4 marzo 1964), regista e sceneggiatore, ha debuttato nel 1994 con «La bella vita». Nel corso della sua carriera ha diretto 14 film tra cui «Ovosodo», «Tutta la vita davanti» «La prima cosa bella» (2010) e «La pazza gioia» (2016) vincitore di 5 Nastri d’argento e 5 David di Donatello