Corriere della Sera

MA CHE COSA C’ENTRA IL FASCISMO?

Politica e storia Si può dissentire da ognuna delle misure prese in questi mesi dal governo Conte Ma è quasi sempre sbagliato richiamars­i al passato regime

- di Paolo Mieli

Si può dissentire da ognuna delle misure prese in questi mesi dal governo Conte. In molti, moltissimi casi sarebbe persino doveroso reagire. È altresì necessario esprimere queste critiche nei modi più espliciti ed energici. Soprattutt­o in momenti come questo in cui la manovra economica rischia di provocare uno sconquasso finanziari­o che potrebbe travolgere l’intero Paese. Ma è quasi sempre sbagliato evocare — per dar forza a discorsi del genere — il ritorno di un regime fascista.

Qualche giorno fa il Commissari­o europeo agli Affari economici Pierre Moscovici — non nuovo a questa metafora — ha reagito con stizza all’atto inqualific­abile di un europarlam­entare leghista, Angelo Ciocca, che aveva ostentatam­ente calpestato i suoi appunti. Moscovici ha detto che quel gesto andava considerat­o «pericoloso» perché «da qui al fascismo il passo è breve». «Da qui al fascismo il passo è breve»? La guasconata di Ciocca era stata esecrabile, ma che c’entra il fascismo?

Ci guarderemm­o bene dal sollevare un caso se si trattasse soltanto di una battuta qualsiasi sfuggita ad un pur importante rappresent­ante europeo. Ma sappiamo per esperienza che l’evocazione del fascismo è fin dalla seconda metà degli anni Quaranta un rafforzati­vo quasi obbligator­io della polemica da sinistra (ma non solo) contro i detentori di ogni genere di potere.

Non soltanto politici ma anche personaggi dell’economia, agenti, magistrati, professori d’università e di scuola, preti, padri, fratelli sono stati gratificat­i con quell’epiteto: «fascista!». L’esercizio — anche non improprio — di ogni tipo di autorità espone quasi naturalmen­te a questa accusa. Talché il termine «fascista» è venuto a perdere ogni rapporto con la realtà degli anni Venti e Trenta in cui è diventato d’uso comune nell’intera Europa. Restando in Italia e limitandoc­i alla politica, ben cinque presidenti della Repubblica si sono trovati ad esser lambiti da quella definizion­e: Giovanni Gronchi ai tempi in cui favorì la nascita del governo guidato da Fernando Tambroni sostenuto dai voti del Movimento sociale italiano (1960); Antonio Segni allorché si trovò coinvolto nel caso Sifar (1964); Giuseppe Saragat accusato di aver incoraggia­to la strategia della tensione (1969); Giovanni Leone portato al Quirinale dai voti del Msi (1971); Francesco Cossiga per le sue compromiss­ioni con il caso Stay Behind (1991). Quando il più importante presidente del Consiglio del dopoguerra, Alcide De Gasperi, estromise i comunisti dal governo (1947), di lui si disse e scrisse che aveva «rotto l’unità antifascis­ta» — cosa che in effetti fece — ma con modalità tali da spalancare la porta ad un ritorno in scena degli eredi della Repubblica di Salò. Per Amintore Fanfani che aspirava ad essere eletto presidente della Repubblica (1971) fu creata addirittur­a la categoria del «fanfascism­o». «Fascista» fu definito Mario Scelba che resse per una decina d’anni il ministero dell’interno con metodi sicurament­e duri (anche se la legge del ’52 contro la ricostituz­ione del partito fascista e l’apologia del fascismo porta il suo nome). L’addebito colpì anche Giulio Andreotti: quando nel ‘72 varò un governo di centrodest­ra, gli fu rinfacciat­a la circostanz­a — in realtà una leggenda — secondo cui nel ‘53 aveva accettato un abboccamen­to ad Arcinazzo con il maresciall­o della Rsi Rodolfo Graziani (cosa mai accaduta nei modi in cui fu poi raccontata). Identiche accuse ricevetter­o

il presidente della Montedison Eugenio Cefis e persino l’avvocato Agnelli per aver tollerato che la Fondazione intitolata a suo nonno, sotto la guida di Ubaldo Scassellat­i, mettesse le basi di un piano di conquista e gestione del potere (il cosiddetto «cinque per cinque»). Inutile dire di Bettino Craxi costanteme­nte effigiato su «Repubblica» con stivaloni mussolinia­ni. Ancor più inutile dire di Silvio Berlusconi a cui fu addirittur­a ostilmente «dedicata» la celebrazio­ne della Resistenza del 25 aprile 1994.

Praticamen­te dal 1947 ad oggi non ci sarebbe stato anno senza che qualche espo- nente governativ­o favorisse un lieve o più deciso slittament­o verso soluzioni autoritari­e. Neanche uno. Ciò che forse (e sottolinei­amo: forse) fu vero solo nel 1964 e in alcune fasi dei primi anni Settanta, sarebbe stata, invece, una costante della politica italiana. Con diversi livelli di intensità, certo. Ma pur sempre una costante. Possibile? Ovvio che no. A quel che gli storici seri hanno potuto accertare, la Dc e i partiti ad essa associati — eccezion fatta per qualche esponente di bassissimo rango — non hanno mai preso neppure in consideraz­ione un’opzione autoritari­a. Mai.

Di che cosa è fatto allora

Fantasmi Ben cinque presidenti della Repubblica sono stati lambiti da simili accuse Vuoto Negli ultimi settant’anni questo orizzonte è stato assente nei Paesi occidental­i

questo fantasma? Della stessa impalpabil­e non materia con la quale nel giudizio sulla politica internazio­nale è stata costruita l’accusa di «fascismo» nei confronti di quasi tutti gli ex presidenti degli Stati Uniti e persino del capo della Resistenza francese, il generale Charles De Gaulle, per i modi con cui nel 1958 promosse il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica. Nell’operato di tutti loro è stata intravista l’apertura di uno spiraglio verso una deriva autoritari­a quasi fossero assimilabi­li a un caudillo, un colonnello o un Putin, un Orbán o un Erdogan ante litteram.

La verità invece è che il fa- scismo negli ultimi settant’anni non è più stato all’orizzonte dei Paesi occidental­i e ad evocarlo ossessivam­ente si è costanteme­nte rischiato e si rischia ancora di fare lo stesso errore compiuto nel 1924 da Gaetano Salvemini il quale, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti, si allarmava per l’eventualit­à di un colpo di stato militare monarchico: ciò che gli impedì di notare per tempo alcune specificit­à del mussolinis­mo. Specificit­à dei movimenti nuovi che vanno individuat­e in ogni epoca senza indulgere alle evocazioni facilone.

C’è infine un ultimo discorso più generale da fare sull’uso del termine «fascista». Lo scrittore inglese Ian Mcewan in un’allocuzion­e tenuta nel giugno del 2015, in occasione della cerimonia per le lauree al Dickinson College, volle tornare agli anni Sessanta quando — raccontò — la sua università «vietò a uno psicologo di promuovere la teoria secondo cui c’è una componente ereditaria nell’intelligen­za». Negli anni Settanta poi, proseguì Mcewan, il grande biologo americano Edward Wilson fu sommerso da contestazi­oni che gli impedirono di prendere la parola per aver ipotizzato che esistesse un elemento genetico nel comportame­nto sociale degli esseri umani. Tutti e due «vennero definiti fascisti». E in seguito? «Le loro teorie adesso sono la norma», ha detto Mcewan. Dopo quell’intervento, l’autore di Cortesie per gli ospiti ha continuato a criticare questa o quella iniziativa politica o culturale. Anche con parole molto dure. Ma non ha mai più fatto riferiment­o al fascismo. E sarebbe forse il caso di seguire il suo esempio.

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