Il duce e l’oscena imparzialità
Domenica, stazione Termini, le otto del mattino, forse per via dell’ora solare la gente sembra più sveglia del solito. Entro in un’edicola per comprare acqua e giornali, c’è un po’ di coda.
All’inizio lo noto senza davvero riconoscerlo, come se la mia mente si rifiutasse di registrare quell’anomalia. È un comportamento del cervello abbastanza comune: rifiutarsi di vedere le cose laddove non ci aspetteremmo mai di vederle. Eppure non c’è dubbio che sia proprio lì: tra il calendario della Juventus e quello di Mission Impossible, ma in posizione dominante rispetto agli altri, è in vendita il calendario 2019 di Benito Mussolini. I suoi occhietti neri mi fissano dall’alto. Mi dico dev’essere qualcos’altro, un fascicolo di storia un po’ vistoso, l’uscita di una collana sul Novecento. Guardo meglio. Accanto al ritratto e al nome in caratteri dorati, c’è un corsivo che da quella distanza non riesco a decifrare, ma la firma evidenziata come l’autografo di una star, quella sì, riesco a leggerla. È davvero un calendario di Mussolini. Ed è davvero in vendita all’edicola della stazione Termini, in una mattina di ottobre. Dell’anno 2018.
Di norma sono taciturno con gli estranei, timoroso, ma quando arrivo davanti alla giovane edicolante, non riesco a trattenermi: «Ma davvero vendete i calendari di Mussolini?» Lei tace per un attimo, colta di sorpresa. È chiaro che sono il primo a farle quella domanda. Mi guarda, forse cercando d’intuire le mie vere intenzioni, poi risponde: «Ce li manda la Grande Distribuzione». Non è gentile né scortese. È perfettamente neutrale. Indossa dei guanti in lattice azzurri con cui maneggia la merce e il denaro, che aumentano l’impressione di distacco da tutto ciò che la circonda. «Sì, ma voi li esponete». A quel punto smette di guardarmi. «È una cosa complicata», taglia corto. Io insisto: «Non andrebbe fatto, offende molte persone», ma lei è già passata al cliente successivo. Così mi allontano dall’edicola, verso i binari, con l’acqua, il giornale e un po’ di tremore alle braccia, lo stesso che mi prende ogni volta che discuto con qualcuno. Mi sento come se avessi appena assistito a un incidente stradale. Lo stesso miscuglio di sgomento e disgusto e senso d’inutilità. Quando è successo? Quand’è iniziata l’amnesia? Quando ci siamo distratti al punto di permettere che Mussolini diventasse un poster da appendere in camera? Non vendono calendari di Franco nelle edicole di Madrid. A Berlino non si trovano souvenir graziosi del nazismo. Magari i calendari di Mussolini si sono sempre venduti in Italia, mi dico per tranquillizzarmi, il mercato acefalo si è preoccupato di soddisfare anche quella fetta di pubblico striminzita. Di certo, però, non mi era mai capitato di vederne uno esposto con tanta oscena imparzialità. E, se prima erano schiacciati sotto pile di altra carta, relegati agli angoli come le riviste porno, cosa significa trovarseli, adesso, sbattuti in faccia così? Forse che quella fetta di pubblico non è più così striminzita.
A distanza di ore continua a girarmi in testa quella frase: «Ce li manda la Grande Distribuzione». Mi viene un po’ di nausea, e non so più se sia per il calendario in sé o per il modo indifferente, sconfitto, ignaro con cui la ragazza, che avrà avuto suppergiù i miei anni, se n’è lavata le mani inguantate d’azzurro. Oppure se sia per qualcosa di ancora diverso: per non essermi arrampicato sullo scaffale e non aver strappato quell’abominio dalla parete, e non aver nemmeno mollato lì l’acqua e il giornale, che li vendessero a qualcun altro. Per questa mia, nostra, educata mitezza, un po’ incredula, un po’ smarrita, che si attira addosso la calamità.
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