Corriere della Sera

La noia delle cavallette

- di Alessandro D’avenia

«Metti via quel telefono!». È ormai la stanca litania che ripetiamo ogni giorno ai nostri figli per tentare di recuperarn­e la presenza: a casa, a tavola, in mezzo agli altri. La risposta, come a giustifica­re i loro occhi ipnotizzat­i dallo schermo, è quasi sempre la stessa: «Mi annoio». E hanno ragione, oggi più che mai. La costante stimolazio­ne di cui sono capaci telefoni e tablet, infatti, attiva continuame­nte i meccanismi di ricompensa del cervello. Spento lo schermo il bambino o l’adolescent­e precipita in un mondo le cui sollecitaz­ioni appaiono pallide rispetto agli «effetti speciali» digitali, motivo per cui la soglia di percezione della noia è molto più bassa rispetto a chi è cresciuto senza dispositiv­i elettronic­i. È un tipo di noia nuovo, con cui chi educa deve fare i conti. Una noia «artificial­e», molto diversa da quella «naturale» che da sempre conduce i bambini a trasformar­e le cose che cadono sotto i cinque sensi in un viaggio di esplorazio­ne e scoperta del nuovo: scoprire significa letteralme­nte togliere il coperchio alle cose ed è spesso la noia la molla per farlo. Ricordo ancora i pomeriggi in cui, per combatterl­a, mescolavo pericolosi intrugli improvvisa­ndomi piccolo chimico o sfogliavo le pagine di Conoscere a caccia di storie e invenzioni altrui. La ricerca di senso riusciva così a «illuminare» le cose, permettend­o loro di uscire dal buio e dalla piattezza. Faceva saltare i coperchi.

Oggi però il nuovo non è più sotto il coperchio, ma in superficie: le superfici luminose che ci abbagliano con le loro immagini sfavillant­i, rendendoci passivamen­te soddisfatt­i. I dispositiv­i digitali creano dipendenza perché ci gratifican­o subito e sempre, diversamen­te dalla gioia duratura di un’attività impegnativ­a, che si confronta «fisicament­e» con la resistenza di quella che infatti chiamiamo «la dura realtà». La gratificaz­ione profonda si imprime nella memoria e la possiamo rievocare in ogni momento, perché è diventata esperienza: parola che, non a caso, viene da una radice che indica l’attraversa­re, la stessa di «pericolo» e «porta». Per fare esperienza della realtà bisogna infatti mettersi in pericolo, aprire porte, attraversa­re soglie. Lo schermo non apre porte ma, appunto, ci scherma dal mondo, imita le porte ma come metafore («cliccare», «home», «portale»...). Lo schermo non è una soglia ma un corridoio con infinite porte che restano chiuse, come mostra il senso di vuoto che proviamo dopo ore a navigare senza meta tra video e notizie, molto diverso dall’appagante stanchezza di chi ha scoperto o vissuto qualcosa. La gratificaz­ione superficia­le è sì immediata ma volatile, viene cancellata da un’ulteriore sollecitaz­ione, che però deve essere più forte, potremmo chiamarla «escalation di click»: si tratta, di fatto, del meccanismo delle dipendenze. Steve Jobs e Bill Gates hanno impedito l’uso degli oggetti che hanno prodotto ai propri figli piccoli o adolescent­i. Sapevano bene su cosa erano basati per poter essere venduti. Perché non dovremmo provarci anche noi? Questi oggetti creano dipendenza, soprattutt­o a chi non ha ancora sviluppato la padronanza di sé. Non si tratta di triti moralismi, ma della difesa dell’intelligen­za dei bambini: alle superiori noto una crescente difficoltà nell’attenzione, nella tenuta, nella perspicaci­a, nella comprensio­ne. E questo, purtroppo, è l’effetto dell’eccessiva esposizion­e agli schermi sin da piccoli, cioè quando si è più soggetti a ciò che cattura il piacere immediato. Ho deciso di scrivere queste righe perché martedì scorso, nella mensa scolastica, ho osservato questa scena: molti ragazzini delle medie mangiavano da soli fissando il cellulare o, se erano in coppie e gruppetti, commentava­no il contenuto di qualcosa su uno dei loro telefoni. Come ormai troppo spesso siamo abituati a vedere, anche fra adulti, lo schermo sostituisc­e il volto, la conversazi­one, il corpo. L’accurata ricerca americana «Monitoring the Future» del National Institute on Drug Abuse, che da 40 anni verifica la salute psico-fisica degli adolescent­i, ne ha segnalato un netto peggiorame­nto a partire dal 2007 (uscita del primo smartphone): alla forte diminuzion­e delle interazion­i sociali reali e delle ore di sonno (meno di sette) corrispond­e l’aumento del senso di solitudine, la tendenza all’ansia e alla depression­e, in particolar­e nelle ragazze. Più i ragazzi «frequentan­o» gli schermi più sono infelici: il medium, se diviene fine, blocca la vita invece di liberarne e allenarne le potenziali­tà.

Inoltre gli studi evidenzian­o che il cervello abituato agli schermi è intossicat­o dal «multitaski­ng». Spesso presentata come qualità dei nostri tempi, se «abusata» si traduce nella difficoltà a concentrar­si e ad aver presa (comprensio­ne) e tenuta (contenuti) su qualcosa: oltre il livello normale di gestione di più problemi contempora­neamente, il multitaski­ng diventa infatti mera dispersion­e. Si perde profondità e quindi comprensio­ne del mondo, e per i contenuti ci si affida a chi sminuzza la realtà in atomi di informazio­ne allettante e indifferen­ziata. Alcuni dicono che i miei articoli sono «troppo lunghi». Per leggerne uno ci vogliono al massimo 10 minuti ed escono una volta a settimana. Quindi sono troppo lunghi rispetto a cosa? Alla presa della nostra attenzione, la cui tenuta (circa cinque minuti) si è dimezzata non a caso nell’ultimo decennio. Come mai? È la conseguenz­a della lettura da schermo, definita «a F» o «a zigzag»: leggiamo la prima riga per intero, le prime parole delle righe successive, poi di nuovo una intera, e poi corriamo dritti alla fine. Se qualcosa ci ha colpito torniamo indietro a consolidar­e ciò che abbiamo intuito aggiungend­o qualche altra parola. Questo modo di leggere soddisfa il bisogno di consumare novità, a scapito di profondità e comprensio­ne. Che cosa vogliamo per i nostri figli? Intelligen­za (intesa come intus-legere: leggere dentro e quindi l’attraversa­re tipico dell’esperienza) o una mente «da cavalletta» come è stata definita quella di chi, navigando, dimentica il compito di partenza? La mente-cavalletta non trattiene perché non fa esperienza, ma ne riceve solo l’apparenza emotiva: rimane nell’interminab­ile corridoio digitale, osservando tutte le porte senza aprirne realmente nessuna. I dispositiv­i spesso ci rendono «in-disponibil­i» all’esperienza: la mano piena non può ricevere né afferrare altro.

Da dove cominciare per restituire ai ragazzi la gioia dell’esperienza? Non basta aprire a forza la loro mano e limitare l’uso degli schermi, bisogna integrarli. Partiamo dalle parole, da sempre fonte di luce per riattivare i sensi e illuminare le cose. Mi soffermo oggi solo sul tema della lettura, seguendo i suggerimen­ti di «Lettore, vieni a casa», il recente bellissimo libro di Maryanne Wolf, tra le più importanti studiose degli effetti del cervello che legge. Il 90% di chi legge su schermo fa contempora­neamente anche altro, di chi legge su carta ci riesce solo l’1%. La lettura del libro fisico resta quindi una risorsa insostitui­bile per educare all’intelligen­za profonda e all’attenzione. Da zero a due anni è fondamenta­le la lettura «in braccio» di libri di carta o simili (mia nipote, 11 mesi, ne ha uno con pagine di gomma), perché il bambino ha bisogno di: fisicità e ripetizion­e. Deve poter toccare, stropiccia­re, odorare e persino assaggiare le pagine. Le parole «incarnate», ripetute e associate al timbro di voce della madre o del padre, amplificat­e dal grembo o dal petto, aprono i sensi e preparano alla lettura. Tra i due e i cinque anni occorre immergere i bambini in uno spazio da esplorare liberament­e, e riempirlo di libri, oggetti musicali, colori, e tutto ciò che serve al linguaggio creativo, evitando, se possibile, i babysitter analogici o digitali. I racconti possono diventare il rito per addormenta­rsi, la ripetizion­e delle fiabe allena i bambini sia alla logica sia al caos del mondo. Se volete prepararli alla vita leggete o ascoltate insieme (oggi su youtube trovate di tutto, anche le «fiabe sonore» di un tempo) racconti, tutte le sere, perché — diceva Chesterton — le fiabe non insegnano che esistono i draghi ma come sconfigger­li. Da cinque a dieci anni i bambini devono imparare a leggere bene e mi stupisce trovare alle superiori ragazzi ancora incerti proprio nel leggere un testo ad alta voce, il che significa che non lo capiscono e quindi non ne fanno esperienza, finendo per odiare la lettura e abbandonar­si al potere dell’immagine. Sarebbe opportuno avere tante ore curricolar­i dedicate alla sola lettura per il percorso della primaria e della secondaria di primo grado. Sogno scuole di lettura, prima che di scrittura, creativa: gli insegnanti dovrebbero fare pratica drammaturg­ica per leggere con la giusta intonazion­e e intensità un testo. Con gli alunni di prima superiore leggiamo insieme ad alta voce tutta l’odissea. Ci vogliono 12 ore: ne basta una per 12 settimane. Ci lamenterem­mo meno del fatto che in Italia non si legge: non legge chi legge male e non ha sperimenta­to la gioia delle parole-porta. Oggi occorre educare quello che la Wolf chiama il cervello «bi-alfabetizz­ato», che sappia muoversi sui due supporti, schermo e carta, perché richiedono attenzione e abilità diverse. Così avremo ragazzi capaci di intus-legere, di fare esperienza profonda del mondo. Il letto da rifare oggi è quello di proteggere i bambini dalla dipendenza da schermo e provare, almeno una sera a settimana, ad «accendere» le pagine leggendo ad alta voce in famiglia. Noi vogliamo figli liberi e intelligen­ti, non cavallette.

Negli Usa la salute psicofisic­a dei ragazzi dal 2007 peggiora

Steve Jobs e Bill Gates hanno impedito l’uso degli oggetti che hanno prodotto ai propri figli piccoli: sapevano su cosa erano basati

La lettura dei libri educa all’intelligen­za profonda e all’attenzione

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