I miti greci (più 3 mila formelle) del sublime ex falegname Joe Tilson
Spesso Joe Tilson (Londra, 1928) chiede protezione alle divinità dell’olimpo greco (Proscinémi). A Demetra, figlia di Crono e Rea (la Cerere romana), alla quale rivolge l’inno omerico, accostandole un melograno diviso in due, che allude alla vicenda della figlia Persefone; a Dioniso (per cui spesso dipinge la vite), figlio di Zeus e di Semele; ad Afrodite (la Venere romana). Ed ecco che miti e divinità rivivono nei lavori (1980-2000) di Tilson, esposti (sino a martedì 11 dicembre) da Menhir Arte a Milano: olî su tele e legni, maioliche dipinte, xilografie, acquerelli riprodotti in catalogo e presentati da Alberto Rigoni. Cui si affiancano lettere dell’alfabeto, numeri, simboli alchemici e così via.
Elementi tutti che si ritrovano nelle tremila formelle di vetro di Murano che formano la facciata est di 400 metri quadrati dell’ausonia-hungaria al Lido di Venezia, inaugurata nei giorni scorsi. Progetto globale di Teodoro Russo, Joe Tilson, Enzo di Martino e Claudio Robeschini. La grande opera dell’artista novantenne inglese affianca quella esistente (che si affaccia sul viale principale del Lido), del 1913, di sapore liberty, dovuta a Luigi Fabris. Un po’ sull’esempio della Majolikahaus di Vienna di Otto Wagner e della Casa Ludwig di Darmstadt di Joseph Olbrich.
Pur avendo un linguaggio personale e un’impronta riconoscibilissima, Joe Tilson è un artista che ne ricorda altri. Ciò non vuol dire che egli abbia debiti a destra o a manca, ma che il suo linguaggio è così immediatamente comprensivo e leggibile da dare l’idea che lo si conosca già. Certo, si tratta solo di sensazioni, perché al momento dei confronti ci si rende conto che le differenze superano di gran lunga le affinità.
Tilson ama confrontarsi con le antiche civiltà. Rese con «forme-segnali», ironia, misticismo e gioco lo hanno sempre salvato dalla retorica (anche quando era un artista pop): miti preclassici, storie e leggende degli indiani d’america, fiabe e sogni degli aborigeni d’australia. Ma la Pop Art, è stato detto, non è forse anche fiaba e leggenda? Da qui, l’avventura di un artista che affronta, con sensibilità moderna, modelli classici per riscriverli. Occhi antichi per la civiltà contemporanea o occhi contemporanei per civiltà antiche?
Sicuramente entrambi. Non si dimentichi, infatti, la formazione dell’artista londinese. Prima degli studi regolari (Royal College of Art), Tilson lavora come apprendista falegname.
Seguono gli anni della Pop Art inglese (che volerà negli Stati Uniti per rientrare in Europa) e comincia a lavorare con le immagini dei mass media. Di notevole impatto gli incontri con Ronald Kitaj, Peter Blake, Allen Jones, Frank Auerbach, Patrick Caulfield e David Hockney. Successivamente adopera il legno. Vuole recuperare gli elementi primordiali e ricreare, con segni e simboli di culture arcaiche, un qualcosa (dimensione) in cui mito e magia si amalgamino sino a diventare tutt’uno. Domina l’alchimia riferita, appunto, ai quattro elementibase, a stagioni, punti cardinali, fasi lunari, labirinti, scale, enigmi, giochi, segni, parole.
Il risultato? Una sorta di abbecedario fantastico, che si ispira al dadaismo iniziale di Breton. La «ricetta»? Anche se nata per un componimento in versi, ben si adatta alla poetica di Tilson: «Prendere un giornale, un paio di forbici, scegliere un articolo della lunghezza desiderata per la poesia, ritagliare l’articolo e ritagliare con cura ogni parola. Mettere le parole in un sacchetto. Agitare dolcemente. Estrarre le parole una dopo l’altra e disporle nell’ordine di estrazione. Copiatele coscienziosamente. La poesia vi somiglierà».
Un gioco affidato al caso e, per quanto riguarda Tilson, a legno, argilla, uso di caratteri greci, griglie da cruciverba, cui naturalmente aggiunge pigmenti di terra, foglie d’oro e d’argento e colori.
L’artista inglese ne ricorda altri, s’è detto. Per taluni lavori, Lucio Del Pezzo; per le Crete senesi, invece, i Paesaggi senesi di Zoran Music. Tilson, che dopo il Premio Roma (1955) ha vissuto a Venezia (dove ha partecipato alla trentaduesima Biennale nel padiglione britannico, l’anno della consacrazione della Pop Art in Laguna) e in Toscana, spiegava che Crete senesi prendeva il nome dalle colline intorno a Siena «che figurano nei dipinti del Sassetta, di Giovanni di Paolo, di Simone Martini e del Lorenzetti del Palazzo Pubblico di Siena», divise, a valle, dai fiumi Merse, Orcia e Ombrone, «che mostrano i colori dei pigmenti della terra, usati per secoli e ancor oggi dai pittori: gli ossidi di ferro che danno il giallo ocra, l’oro, il marrone, il rosso, e i colori terra di Siena e Siena bruciata».
E così la sua tavolozza opaca prendeva fuoco.