Lo squarcio di «Azzurro» tra i proclami del Sessantotto
Ne succedevano di tutti i colori in quell’estate di cinquant’anni fa. Eppure, con il ‘68 che ci girava attorno, mettevamo 50 lire, o giù di lì, nel juke-box per sentire «Azzurro». Ossessivamente 50 lire. Che non erano destinate a finanziare le lotte studentesche, le lotte operaie, i giornali rivoluzionari. Ma finanziavano, questo sì, l’immaginazione al potere. Perché ci voleva una bella immaginazione a seguire, a dare, a ricevere un senso dalle parole di quella canzone. Allora la cantava Celentano. Ma l’avevano scritta e musicata due tipi surreali come Paolo Conte e Vito Pallavicini. Era già fuori moda il giorno stesso in cui è uscita: ma sei scemo? Una marcetta zumpa-zumpa-zumpa di questi tempi? Una marcetta stramba, una musichetta quasi ottimista, non c’è rock, non c’è ballata, destinata a restare chiusa per sempre in quello stupido juke-box: diceva così il tuo amico impegnato. E invece «Azzurro» con quel suo colore ha conquistato il cielo dei desideri e il mare dei pensieri che — appunto — azzurri sono. I versi chiave, che mandavano in tilt il potere della nostra immaginazione erano: «Il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va». Ma come, ci domandavamo, il tuo amore se n’è andato in qualche spiaggia neanche troppo lontana e tu, che potresti raggiungerla con il treno dei desideri, ti fai prendere da chissà quali pensieri e rinunci?
Ma sei scemo? Passano tre lustri abbondanti e — finalmente! — «Azzurro» la canta proprio lui, Paolo Conte. E capisci che non c’è niente da capire. È così e basta. Se chi scrive non ricorda male, Conte spiegò dal palco del Teatro Carcano a Milano: «Azzurro» è una canzone un po’ segreta, magari dà l’idea di cercare un po’ in fondo a noi certi motivi per cui…, ovviamente ognuno i motivi ce li ha diversi. Guarda caso, un maestro del jazz, Giorgio Gaslini, ha eseguito una sua versione di «Azzurro».