Corriere della Sera

Abdullah, un dollaro di talento più potente di ogni apartheid

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Sessantano­ve morti (tra i quali dieci donne, otto bambini) e oltre 180 feriti: sono le cifre ufficiali del massacro di Sharpevill­e, agglomerat­o urbano del Gauteng, in Sudafrica. È il 21 marzo 1960. Alle 10 di mattina migliaia di dimostrant­i si radunano per contestare contro la «pass law», che obbliga i neri a esibire un lasciapass­are per muoversi nelle zone riservate ai bianchi.

I manifestan­ti si schierano davanti ai blindati e chiedono di essere arrestati. Tutti. La polizia comincia a sparare. È la prima carneficin­a del Sudafrica segregazio­nista da quando, dodici anni prima, è stata varata dal governo bianco la politica dell’apartheid. Ed è anche la miccia che innesca un’escalation di tensione destinata a protrarsi fino al 1990.

Chi può, lascia il Paese — ben pochi, a dire il vero. Adolph Johannes Brand è un musicista ventiseien­ne, nato a Città del Capo. È conosciuto già da tutti come Dollar Brand perché da ragazzino andava al porto per fare amicizia con i marinai americani di passaggio e parlare di jazz: spesso gli regalavano un dollaro (ma la leggenda ha anche una versione secondo cui era lui a offrire i pochi soldi che riusciva a raggranell­are in cambio di qualche disco).

Sta di fatto che un paio d’anni dopo la strage di Sharpevill­e anche per lui arriva l’occasione di emigrare: ormai era un pianista esperto e Gloria d’africa Ibrahim Abdullah (Adolph J. Brand), 84 anni, suona l’8/11 al Teatro dell’arte di Milano. Detto Dollar Brand sin da piccolo: parlava di jazz con gli americani al porto di Città del Capo e si faceva dare soldi un amico riuscì a procurargl­i un contratto per un locale di Zurigo, il Club Africana, dove approdò con i due componenti del suo trio e la giovane cantante Sathima Bea Benjamin, che presto lo avrebbe sposato e sarebbe rimasta al suo fianco fino alla morte, nel 2013.

Nel ‘59 lo aveva voluto con sé il sassofonis­ta Kippi Moeketsi, vera anima del jazz moderno sudafrican­o: come Jazz Epistles erano anche riusciti a incidere un disco (della band faceva parte il trombettis­ta Hugh Masekela, un altro nome destinato alla fama), ma nel frattempo i fatti di Sharpevill­e avevano cambiato tutto: erano stati dichiarati illegali i raggruppam­enti di dieci o più persone di colore e il tour che stavano preparando non partì mai.

La seconda grande svolta artistica della sua vita avvenne così qualche mese dopo l’arrivo in Europa, quando in Svizzera sbarcò l’orchestra dell’uomo che più di ogni altro Brand idolatrava: Duke Ellington. «Per me, per la mia generazion­e — racconterà — non era solo un grande musicista, ma anche un eroe culturale, un simbolo, un po’ come il pugile Joe Louis, al quale Count Basie aveva dedicato quel blues che da ragazzo avevo ascoltato centinaia di volte».

L’incontro con il Duca rischiò però di non avvenire mai, perché il pianista sudafrican­o non ebbe dal suo Club il permesso di andare a sentire il concerto. Per fortuna ci riuscì Sathima, che addirittur­a convinse il Maestro a raggiunger­e l’africana per l’ultimo set notturno di Brand. «E quando arrivarono — avrebbe poi raccontato lui ridendo — ero spaventato a morte». La scintilla scoccò immediatam­ente e il risultato fu un album, «Duke Ellington presents the Dollar Brand Trio», che non poteva essere miglior trampolino di lancio internazio­nale. Qualche tempo dopo fu persino invitato a sostituire Ellington alla guida della sua big band per alcune date.

Ormai mancavano pochi anni alla conversion­e all’islam e all’adozione del nome di Abdullah Ibrahim, ma fu proprio in quel periodo che il pianista si fece conoscere anche in Italia, dove molti pensano ancora con gratitudin­e a quel Dollar Brand che aprì l’immaginari­o collettivo alle suggestion­i e ai ritmi impastati di atmosfere Xhosa e Zulu, magari senza aver avuto — allora — una consapevol­ezza precisa degli eventi drammatici agli albori della sua carriera.

Il pianista 84enne dal volto severo che oggi torna ancora una volta a Milano è un’icona assoluta. L’esilio volontario, il trasferime­nto negli Usa, l’aver rivissuto prima e dopo la fine dell’apartheid nel suo Paese — dove è stato celebrato da Mandela come una gloria nazionale e dove ha fondato nel ‘99 una grande scuola di musica — ne hanno fatto una figura unica per il jazz e per l’arte africana. In scena alla tastiera

● Non solo Ibrahim: Jazzmi dedica ampio spazio a pianisti e tastierist­i, quasi un festival nel festival.

● Celebrità Spiccano i nomi di Chick Corea (10 nov), Jason Moran (6 nov), dell’80enne Steve Kuhn (6 nov) e di Stefano Bollani (9 nov).

● Nuovi suoni Tra le proposte più attuali, Kamaal Williams (2 nov) e Christian Sands (11 nov).

In esilio dal Sudafrica razzista, colpì Ellington che lavorò col suo trio. Poi incontrò l’islam

● I nostri

Tra gli italiani, maestri come Enrico Intra (2 nov) e Mario Rusca (3 nov), ma anche Giovanni Guidi (2 nov, con Rava), Alberto Tafuri (3 nov) e Alessandro Lanzoni (8 nov).

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Senza confini Jazzmi è anche terra di sperimenta­zione dove gli stili si mescolano. Come per il mix tra soul e musica africana della britannica Laura Mvula, sopra l’anno scorso con il suo gruppo all’alcatraz
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