Corriere della Sera

E sulle note di «macho man» Trump scatena la paura bianca

In Florida arriva sulle note di Macho Man. Parla dei «nemici del popolo». La folla lo adora e si identifica in lui come non ha mai fatto con Obama

- Di Aldo Cazzullo

Uno dei passatempi di Donald Trump è sedurre le donne degli amici. Un giorno, in viaggio sull’aereo privato con un miliardari­o e una modella, propose di scendere ad Atlantic City per visitare uno dei suoi casinò. Seccato, l’amico rispose che ad Atlantic City non c’era niente da vedere: solo «white trash», spazzatura bianca. «Cosa vuol dire white trash?» chiese la modella. «Sono quelli come me — rispose Trump —. Solo che loro sono poveri».

Il rapporto tra il presidente — arrivato sulle note di Macho Man — e la folla che lo attende da quattro ore alla Germain Arena, nelle paludi della Florida, è molto diverso da quello che legava Obama ai sostenitor­i. Obama era più apprezzato che amato. La gente ammirava lui, la sua storia personale, la sua cultura; ma non era sfiorata dall’idea di essere come lui, di essere lui. Con Trump l’identifica­zione è totale. Perché Trump non è percepito come un miliardari­o, ma come un povero con i soldi. Pensa, sensottoma­rini te, parla come il suo popolo.

Che lo adora.

Ha detto Trump di non aver mai ascoltato un discorso di Obama: «Troppo noiosi. I discorsi politici sono finiti». Il suo infatti non è un comizio. È uno show. Fa anche le imitazioni dei rivali, ad esempio Nancy Pelosi, in falsetto. Lo teorizza pure: «C’è qualcosa di più divertente che venire a vedermi?». E il fine è lo stesso di tutta la sua vita: propaganda­re il marchio Trump.

Il caravanser­raglio che lo segue è quello classico della destra americana: il sosia di Elvis, i biker con il giubbotto della Harley Davidson, i veterani, la musica country, i religiosi con cartello «risposarsi è adulterio». Ma il modello non è Nixon, non è Reagan, tantomeno Bush. È Hulk Hogan, il re del wrestling, la lotta in cui nessuno si fa davvero male.

Come Hogan, Trump visto da vicino è altissimo, sovrappeso, torvo, minaccioso, malmostoso, ma sempre pronto ad aprirsi in un sorriso ammiccante, a tirarti una pacca condiscend­ente. Alterna il ditino alzato, per rivendicar­e, e le braccia spalancate, per fare la vittima. Davanti tiene il gobbo con il testo scritto: tra le molte nevrosi, ha il terrore di perdere la memoria; ma non ne avrebbe alcun bisogno. Lo show è semplice, essenziale. In un’ora, Trump dice in sostanza due cose: l’america non è mai stata tanto forte, ricca, potente nella storia; eppure l’america ha paura, è in pericolo, e deve essere protetta.

«Gli afroameric­ani non sono mai stati così bene come con me» dice guardando il gruppetto con i cartelli «Blacks for Trump», «non abbiamo mai avuto missili tanto devastanti, navi tanto veloci, tanto insidiosi». Inoltre, «ho salvato il mondo dalla catastrofe nucleare, piegando l’iran» («Fuck Iran!» grida la folla, facendo il pollice verso come Nerone). Eppure non ci si può rilassare un momento. «Perché le nostre frontiere non sono sicure. I democratic­i vogliono far arrivare qui i peggiori criminali, gli spacciator­i, gli stupratori…».

La campagna per le elezioni del 6 novembre, ovviamente «le più importanti di sempre», si stava mettendo male. Prima i pacchi-bomba ai suoi critici, poi la strage in sinagoga: l’agenda gli stava sfuggendo di mano. Per riprenders­ela, Trump si è inventato due promesse. Meno 10% di tasse sulla classe media. E revoca dello ius soli, per cui chi nasce in America è americano. In realtà, il presidente non può cambiare il 14° emendament­o senza un voto del Congresso, come gli hanno ricordato molti repubblica­ni. Ma allo show basta e avanza. Ed ecco che nella notte di Halloween Trump disegna uno scenario da ultimi giorni dell’umanità: «Centinaia di migliaia di donne incinte stanno arrivando da noi, per far nascere qui i loro figli e farli diventare americani, anche se clandestin­i. È il birth-tourism, il turismo della nascita. E questo ci costerà miliardi di dollari. Miliardi!». Molte di loro sono astutament­e mimetizzat­e nella carovana partita dall’honduras, che è a 900 miglia dal confine ma contro cui Trump ha mobilitato 15 mila uomini, più che in Afghanista­n: «I nostri soldati e l’eroica polizia di frontiera la fermeranno». «Finisci il Muro!» gli gridano. Uno speaker avvisa: «Se hai vicino un contestato­re, non picchiarlo. Grida Trump-trump-trump. Qualcuno verrà a rimuoverlo».

L’altra differenza rispetto a Obama è il rapporto con il nemico. I militanti democratic­i provano per la nuova destra un misto di disprezzo e disgusto: si sentono moralmente superiori e non si capacitano che un compatriot­a possa spasimare per uno xenofobo misogino con i capelli dal colore introvabil­e in natura. Questa folla invece è animata da un sincero e vibrante odio. E il coprotagon­ista dello show, il cattivo, «il nemico del popolo» dice proprio Trump, è qui: i media, i servi del sistema.

«Sono stato a Pittsburgh, a portare le condoglian­ze. E loro, i giornalist­i, cos’hanno fatto? Hanno scritto solo di contestazi­oni che nessuno ha visto! Ed eccoli, guardateli, sono in mezzo a noi!». A questo punto i diecimila dell’arena si voltano verso il palco dei reporter, e inveiscono con le vene del collo gonfie, per due intensi minuti di odio. «Fuck the Cnn!» gridano pacifiche madri di famiglia (un’altra indossa una maglietta autoironic­a: «Deplorevol­i per Trump»). Ovviamente nel palco non ci sono gli editoriali­sti di Washington, ma cronisti spesso precari, talora in bermuda per il caldo, che si guardano stupefatti: «Calmi, stiamo calmi, tra loro ci sono anche brave persone» sorride ora Trump, compiaciut­o della propria magnanimit­à.

In Florida si elegge anche il governator­e: «Da una parte c’è un uomo educato a Harvard e Yale, Ron Desantis. Dall’altra parte c’è un ladro. Sindaco di Tallahasse­e, la città più corrotta d’america». In realtà, il candidato democratic­o Andrew Gillum ha scroccato due biglietti per vedere Hamilton, il musical. Mai un presidente ha parlato così in pubblico di un avversario. Ma anche questo serve allo schema «noi contro loro», con apologia finale: «Tutti noi che siamo qui condividia­mo la stessa casa, la stessa bandiera, lo stesso inno; e tutti siamo stati creati dallo stesso Dio». E quando dice tutti, intende i repubblica­ni: «L’america sta vincendo, perché abbiamo messo per prima l’america».

Il suo metodo è stato spiegato da Anthony Scaramucci, per dieci indimentic­abili giorni direttore della comunicazi­one della Casa Bianca: «Trump mente sapendo di mentire. Ma non lo fa solo per eccitare gli amici. Lo fa soprattutt­o per indispetti­re i nemici. E ci sta riuscendo benissimo». Radicalizz­are l’opposizion­e, è l’idea. Spingerla a sinistra. Mettere in un angolo i democratic­i di centro e puntare il dito sui «socialisti», meglio ancora se donne, di colore, con il velo islamico; magari il suo futuro rivale per la Casa Bianca fosse una di loro.

La semplifica­zione è al limite del ridicolo: «Vuoi poche tasse e poco crimine? Vota repubblica­no. Vuoi tante tasse e tanto crimine? Vota democratic­o. Poi non lamentarti se la Florida diventa il Venezuela». La notte del 6 novembre sapremo se avrà funzionato. Ma una cosa è certa fin da ora: Trump non è stato un incidente della democrazia, una bizzarria della storia, un uragano isolato in un tempo di bonaccia. Potrà essere sconfitto, ma lascerà traccia di sé. E dopo Trump nulla, neppure i democratic­i, neppure l’america, sarà più come prima. Intanto lui se ne va a riposare nella villona di Mar-alago: tutti gli tendono la mano, lui non la stringe a nessuno.

Come il wrestling

Il modello non è Nixon o Reagan, ma Hulk Hogan, re della lotta in cui non ci si fa davvero male

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L’entusiasmo dei fan La folla dei sostenitor­i del presidente repubblica­no Donald Trump in uno dei comizi degli ultimi giorni di campagna elettorale in Florida
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(Afp) CampagnaIl presidente repubblica­no Donald Trump, 72 anni, sta viaggiando moltissimo per il Paese in vista del voto di medio termine in cui sono in ballo tutti i seggi della Camera e circa un terzo (35) di quelli del Senato

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