NELLE CORDE DI SHOSTAKOVICH
L’appuntamento Si apre il 12 novembre la stagione della Filarmonica della Scala con Chailly sul podio. L’interprete del primo Concerto del compositore sovietico ricorda il suo percorso di maturazione. Compiuto dialogando con Rostropovich VENGEROV STAR DE
A17 anni Maxim Vengerov era il nuovo prodigio del violino: debuttava alla Scala diretto da Carlo Maria Giulini in Mendelssohn e per la prima volta affrontava il Concerto di Shostakovich con cui aprirà la nuova stagione della Filarmonica.
«Un brano che adoravo ma che solo studiando con Mstislav Rostropovich capii — racconta —. Slava mi aveva invitato a un suo festival e alla fine della prima prova mi disse: bravo, suoni bene, ora però dobbiamo raggiungere la stratosfera». Il racconto prosegue incalzante: «Mi impegnai per suonare ancora meglio, per rendere ancora più bello il mio suono; durante il Notturno e soprattutto la Passacaglia, che del concerto è il vertice estetico e spirituale, ebbi la sensazione inebriante di suonare benissimo. Ma guardando in faccia Rostropovich non mi sembrava convinto; si complimentò per il suono, ma lo definì generico: mi disse che non era adeguato né a quello che stava vivendo Shostakovich mentre lo componeva né al senso che voleva dare a quelle note».
Rostropovich non era stato solo un sodale artistico di Shostakovich: «Come con Britten e Prokofiev, ne era stato amico e così mi poteva raccontare aneddoti, segreti, notti passate con lui a parlare di musica e della vita: storie di cui solo lui poteva essere testimone. I suoi racconti illuminavano ogni nota e mi facevano capire come vi si specchiasse la storia tragica del compositore e del popolo russo: la Passacaglia nasce dalla frustrazione, dalla sofferenza, dalla paura che dominavano in Russia nel periodo del Regime; Shostakovich non poté neppure pubblicare questo Concerto fino alla morte di Stalin perché in quegli anni c’era una censura strettissima e la sua musica era guardata con sospetto». Da Rostropovich ha imparato un metodo: «Mi spingeva a immedesimarmi con l’autore, a pensare con la sua testa, a guardare le cose e le note con i suoi occhi; con Slava era un confronto umano e spirituale prima ancora che tecnico e musicale».
Un confronto che si allargava all’intera storia musicale: «Eravamo a Londra per incidere il primo Concerto di Shostakovich assieme a quello di Prokofiev, tra una sessione e l’altra mangiavamo assieme; una volta gli confessai, quasi vergognandomi, di considerare il Primo di Shostakovich migliore, più “avanti” del Concerto di Beethoven. Lui sorrise e rispose: caro Maxim, è la storia della musica che va avanti, Shostakovich è il Beethoven del ventesimo secolo perché prosegue l’azione di rinnovamento e allargamento degli orizzonti intrapresa da Beethoven; la sua musica è più forte e travolgente perché la musica del nostro secolo può avere più risorse e quindi più forza; basta pensare a come erano le orchestre duecento anni fa».
Oltre ai dialoghi con Rostropovich o altri musicisti come Daniel Barenboim e Riccardo Chailly («ha una capacità analitica incredibile, sa affondare tra le pieghe di una partitura come pochissimi»), a segnare la carriera di Vengerov è stato un infortunio alla spalla che nel 2007 lo costrinse ad abbandonare lo strumento per quattro anni, proprio quando ne era l’icona mondiale: a dicembre 2006 aveva incantato la Scala suonando con la Filarmonica Beethoven e poi il doppio concerto di Bach assieme a Leonidas Kavakos. «All’inizio non fu facile; per quattro mesi dopo l’operazione non potei suonare, nonostante le cure e la fisioterapia; poi iniziai per dieci minuti, poi quindici: suonare divenne il modo di scaricare le tensioni, riuscivo a imbracciare il violino solo restando rilassato e per farlo dovetti cambiare tutto, da come tenevo l’archetto a come inclinavo il collo sulla mentoniera. Fu un esercizio di pazienza e autocontrollo impressionante: riuscii a suonare a lungo solo quando imparai a controllare la paura». Oggi però vede quegli anni in un’altra prospettiva: «Mi sono stati utili innanzitutto per riposarmi; solo dopo due anni il palco iniziò a mancarmi davvero. E mi permise di studiare direzione d’orchestra, un sogno a lungo coltivato ma che i ritmi del concertismo non mi avevano mai permesso di realizzare seriamente. Guardare da una prospettiva diversa i brani mi ha aiutato ad approfondire le interpretazioni anche come solista».
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