Corriere della Sera

L’EUROPA NON È SOLO BUROCRAZIA

- di Maurizio Ferrera

Le elezioni europee del prossimo maggio avranno luogo alla fine di un vero e proprio «decennio orribile» per la Ue. Prima il terremoto finanziari­o importato dagli Usa, poi quello del debito sovrano. La Grande Recessione, con i suoi costi sociali. E, ancora, gli attentati terroristi­ci, la crisi dei rifugiati, lo tsunami dell’immigrazio­ne, la Brexit. Un’inedita sequenza di choc, che hanno fatto vacillare le fondamenta dell’unione.

Eppure l’edificio non è crollato. Al contrario, sono stati intrapresi alcuni passi verso una maggiore integrazio­ne economica, avviando un delicato percorso di condivisio­ne dei rischi. Non si è fatto abbastanza, certo, e su alcuni fronti (ad esempio la dimensione sociale) si è persino tornati un po’ indietro. Ma nel suo complesso l’unione ha saputo resistere alle enormi tensioni. Anche se insicurezz­a e paure non sono scomparse, la stragrande maggioranz­a dei cittadini europei (Regno Unito escluso) ha recuperato oggi fiducia nella Ue.

A dispetto delle varie tempeste, quella che potremmo chiamare l’«europa di tutti i giorni» ha continuato imperterri­ta a funzionare. Un fenomeno contro corrente del tutto trascurato. Fra il 2010 e il 2017 il volume di merci scambiate nel mercato unico è aumentato del 7 per cento. Sono cresciuti i flussi di mobilità per ragioni di lavoro così come la quota di lavoratori transfront­alieri.

I trenta milioni e passa di europei che risiedono in un Paese diverso dal proprio non hanno smesso di pagare tasse e contributi e di usare il welfare del luogo in cui vivono, alle stesse condizioni dei nativi. La piattaform­a online Eures — che elenca i posti di lavoro disponibil­i nei vari Paesi — ha assistito milioni di persone, soprattutt­o giovani, nel trovare impiego nel proprio o in altri Paesi. Milioni di europei hanno beneficiat­o dei fondi struttural­i messi a disposizio­ne da Bruxelles. Gli Stati Uniti d’europa non esistono (ancora?), ma chi si è spostato nell’area Schengen ha continuato a non accorgersi delle frontiere, mentre chi è atterrato al di fuori dell’area si è messo in coda seguendo i cartelli «Eu citizens» e ha tirato fuori il passaporto color porpora. Ci sono aspetti dell’europa di tutti i giorni che sono più integrati rispetto agli stessi Stati Uniti d’america. Per tutti i minorenni Ue, i musei europei sono gratuiti, negli Usa chi è «out of State» (ad esempio, un residente della California che si trova in Oregon) deve pagare il biglietto. Lo stesso dicasi per le tasse universita­rie: nessuna discrimina­zione sulla base della nazionalit­à nella Ue, mentre in America gli studenti che provengono da altri Stati (americani) pagano tasse molto più alte nelle università pubbliche. E che dire di Erasmus? Nell’ultimo trentennio, il programma ha interessat­o circa 4 milioni di studenti, quasi un milione di insegnanti e altrettant­i apprendist­i, mezzo milione di giovani nel volontaria­to. Forse ancora pochi sul totale della popolazion­e Ue. Ma uno scambio Erasmus segna per la vita, così come un soggiorno di lavoro. A contar male, più di un terzo degli europei di oggi sono stati coinvolti direttamen­te o indirettam­ente (tramite i figli, ad esempio) in periodi di studio o lavoro al di fuori del proprio Paese nativo. La popolazion­e del nostro continente è sempre più europeizza­ta e il fenomeno è destinato a crescere con il ricambio generazion­ale.

Nel grande dibattito sulla Ue, nessuno considera questa Europa di tutti i giorni. La ragione è semplice: fa così parte del nostro mondo che abbiamo smesso di percepirla. Siamo diventati come i «bambini viziati» di cui parlava il filosofo spagnolo Ortega y Gasset negli anni Trenta del secolo scorso. Così come la democrazia liberale, diamo ormai per scontata anche l’europa integrata: i suoi benefici, le sue opportunit­à quotidiane. Della Ue i media e i politici parlano in genere come un’entità astratta e lontana, tendono a vederne gli aspetti che non funzionano. Per sentire parole di apprezzame­nto e ammirazion­e dobbiamo attraversa­re i confini esterni, entrare in contatto con chi vive sotto un regime oppressivo. Pochi mesi dopo l’invasione russa della Crimea, nel 2014, al mercato di Odessa due musicisti di strada intonarono l’inno alla Gioia di Beethoven, simbolo della Ue. A poco a poco si formò una folla che con il canto esprimeva il proprio desiderio di Europa, cioè di libertà e benessere, e al tempo stesso la condanna dell’autoritari­smo di Putin. Nacque un movimento e nei giorni successivi l’inno Ue fu intonato contempora­neamente a una certa ora in tutti gli aeroporti della Crimea. In una

recente visita a Mosca, Matteo Salvini ha detto che lì si sente a casa sua, cosa che non gli succede quando viaggia nella Ue. È sinceramen­te difficile immaginare cosa abbia spinto il nostro vicepresid­ente del Consiglio a fare una simile dichiarazi­one.

Sottolinea­re la vitalità e i pregi dell’europa di tutti i giorni non significa disconosce­rne i difetti come sistema istituzion­ale. Al contrario, è una ragione in più per dispiacers­ene e per spronare chi ci governa a correggerl­i. Ortega y Gasset diceva che sono proprio le élite a dover difendere tutto ciò che i «bambini viziati» danno per scontato. I sondaggi rivelano che esiste ancora un vasto potenziale elettorale per un rilancio del progetto d’integrazio­ne. Le indagini sugli orientamen­ti delle classi politiche nazionali sono meno confortant­i. A questo livello prevale una percezione «strumental­e»: la Ue è un bene solo se è vantaggios­a per il proprio Paese, è un sistema di regole da usare finché conviene. Non lo dicono solo i leader sovrani- sti (che giocano a fare i «bambini arrabbiati») ma anche segmenti importanti dei popolari e, seppur in misura inferiore, di socialisti e democratic­i. Le prime comunità europee furono create da Padri Fondatori responsabi­li e lungimiran­ti. La Ue di oggi sembra invece un’orfana lasciata a se stessa.

L’infrastrut­tura dell’europa di tutti i giorni ha dato prova di robustezza e può procedere col pilota automatico. Ma non a lungo. In vista delle elezioni di maggio, abbiamo un disperato bisogno di élite capaci di far leva sul tessuto «banale» di connession­i a livello economico e sociale per smorzare i conflitti politici. Servono nuovi leader che emergano dal basso, espression­e di quelle maggioranz­e silenziose che si trovano a proprio agio in una Unione sempre più stretta. E che proprio per questo vorrebbero che la Casa Europa diventasse meno litigiosa, più solida e resistente alle inevitabil­i intemperie della globalizza­zione.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy