Conte: noi barbari? Mi piace Cronache dell’era gialloverde
Esce oggi il libro di Bruno Vespa Rivoluzione – Uomini e retroscena della Terza Repubblica. Pubblichiamo un brano tratto dal capitolo intitolato «Il settimo sigillo».
Rivoluzione? Sì, Rivoluzione. «Questo è un governo rivoluzionario» mi dice Luigi Di Maio, con i suoi placidi occhi di cerbiatto mentre l’europa e i mercati finanziari sono in tempesta. «Mi piace la definizione di barbari» aggiunge sorridente Giuseppe Conte nel suo ufficio di Palazzo Chigi. «Per i greci, “barbaro” era lo straniero, l’estraneo alla comunità. Bene, noi siamo estranei all’establishment.» «Governo rivoluzionario? Be’, sì: una cosa simile non si era mai vista…» osserva Matteo Salvini. Altro che Alberto da Giussano, altro che Braveheart di antiche memorie bossiane: il signore che mi sta davanti nel suo appartamento da single nel cuore di Roma è lo stesso al quale la rivista americana Time ha dedicato una delle copertine che scandiscono la storia. È vero che nell’ultimo secolo era capitato anche a Mussolini (sette volte), De Gasperi (due volte), Togliatti, Berlinguer, Veltroni, Berlusconi e Monti, ma il titolo sopra la foto di Salvini, Il nuovo volto dell’europa, ne sancisce un ruolo di leadership molto elevato. E il titolo interno (L’uomo più temuto d’europa) ne fa il nemico da abbattere. Esattamente quel che Salvini cerca.
Rivoluzione, dunque. Non eravamo abituati. La Rivoluzione napoletana del 1799, le Cinque Giornate di Milano del 1848, la Repubblica Romana dell’anno successivo furono eroiche rivolte locali durate un soffio. Poi, certo, Mussolini andò a Roma in vagone letto e fece la Rivoluzione fascista. Ma, a parte la sua lunga parentesi, non ne abbiamo mai avute altre. La stessa Resistenza non fu rivoluzione. Fu una rivoluzione giudiziaria Mani pulite. «Se ci chiamano, siamo pronti» mi disse nel 1993 Francesco Saverio Borrelli, capo della Procura di Milano. (...) Arrivò invece Berlusconi, che pagò caro il suo azzardo. Fu rivoluzionato il panorama politico, ma non fu una Rivoluzione. Questa sì che lo è. È cambiato lo schema di gioco. Si è rovesciato il sistema. «Il 4 marzo si è aperto uno squarcio» mi dice Di Maio. «Fino ad allora si pensava che l’unico modo di far politica fosse rispettare i conti. Ma se l’ossessione dei conti te li fa preferire ai cittadini, sei morto».
Quando la notte del 4 ottobre il governo gialloverde ha presentato i primi conti, l’economist ha titolato: Il budget porta l’italia più vicina al baratro. Il governo italiano ha mandato un segnale molto preoccupante. Non fa riforme nuove e cancella le vecchie. E il 23 ottobre, due giorni prima che la manovra di bilancio venisse bocciata dalla Commissione europea, il New York Times ha scritto: «Il debito italiano potrebbe preoccuparci tutti, innescando una reazione a catena difficile da fermare». «Gli italiani hanno ragione di essere frustrati» sostiene l’economist. «Crisi finanziaria e modesta crescita cronica non li fanno più ricchi di quanto non lo fossero alla fine del secolo scorso. Dieci su cento sono disoccupati, altri venti vivono con meno di 10.000 euro all’anno. E allora il 4 marzo hanno votato per il cambiamento». No, hanno votato per la Rivoluzione. Desideri prima delle regole.
Di Maio ha 32 anni, è più giovane dei miei figli. Un giorno, durante la registrazione di «Porta a porta», mi avvicinai e gli dissi: quando lei avrà famiglia, i suoi figli vorranno forse più cose di quante lei potrà permettersi di comprare. Non pensa di dover dire questo sì e questo no? Lui ribaltò il discorso: prima soddisfare le necessità, poi i soldi si trovano. (...) È una scommessa rivoluzionaria. Può darsi che la vinca. L’europa e i mercati pensano che la perda. Ma c’è una differenza. La Commissione europea è delegittimata e a scadenza. Delegittimata perché ha perso la scommessa con la crisi: l’austerità ha peggiorato la situazione. Non ci fosse stato Mario Draghi e il suo «whatever it takes» (tutto il necessario) del 2012, che in sei anni ha valorizzato di oltre 1.500 miliardi le borse dei quattro principali paesi dell’eurozona, e l’iniezione di 350 miliardi tra il 2015 e il 2018 nelle casse italiane grazie al «quantitative easing», saremmo andati per stracci, come usa dire. (...)
La Commissione è a scadenza anche perché frutto di un accordo tra popolari e socialisti a rischio estinzione nelle elezioni del 2019. Molti dei censori dell’autunno 2018 sono destinati a sparire dalla circolazione proprio per mano dei populisti che attaccano. I mercati no. I mercati sono di ghiaccio. Vogliono proteggere i loro soldi, se possibile moltiplicarli. Quando vedono nero, si vestono come la Morte nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman e usano la falce. Trasformano il governo italiano in Antonius Block, il cavaliere senza paura che sfida il destino: «Questa è la mia mano, posso muoverla, e in essa pulsa il mio sangue. Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo. E io… io, Antonius Block, gioco a scacchi con la Morte». Nel film il cavaliere perde. Come finirà la partita italiana?
La definizione di barbari mi piace Per i greci, barbaro era lo straniero, l’estraneo alla comunità Bene, noi siamo estranei all’establishment