Corriere della Sera

Si chiamava Emanuele

- di Massimo Gramellini

Si chiamava Emanuele e stava facendo il lavoro più inutile del mondo. Arrestare un ladro di appartamen­ti che, ai sensi del comma x della norma y, il giorno dopo sarebbe tornato in libertà. Si chiamava Emanuele e indossava la divisa di vicebrigad­iere dell’arma. Aveva intercetta­to il malvivente in un parco. Nella concitazio­ne dell’inseguimen­to, aveva scavalcato un muretto ed era scivolato sui binari bagnati della stazione di Caserta, accanto a un passaggio a livello, proprio mentre irrompeva un treno regionale che non aveva potuto evitare l’impatto. Erano le otto di sera. Faceva buio. Si chiamava Emanuele e aveva trentaquat­tro anni, due figlie piccolissi­me, una moglie giovane e due genitori invecchiat­i di colpo. I carabinier­i finiscono in prima pagina solo quando saltano su una mina in qualche guerra o quando picchiano un inerme in qualche carcere. Simboli estremi del bene e del male. Emanuele, così si chiamava, aveva inseguito e arrestato tanti ladri, ma in prima pagina non c’era finito mai. Anche la sua morte, in fondo, è stata così assurdamen­te ordinaria da meritare poco più di un trafiletto nelle cronache locali. I suoi colleghi scrivono che le autorità non gli intitolera­nno né una strada né una piazza e che a breve il suo nome non lo ricorderà più nessuno. Invece si chiamava Emanuele Reali e così si chiamerà per sempre. Finché ci sarà un carabinier­e che insegue un ladro al buio, su una strada bagnata.

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