Corriere della Sera

I SEGNALI DI UN PAESE SPACCATO

- di Aldo Cazzullo

L’imitazione poteva risultare odiosa o divertente: un gigante sovrappeso dalla cravatta rossa troppo lunga che fa il verso a una donna, con le mossette, la voce in falsetto e tutto. Di sicuro, non si era mai visto il presidente degli Stati Uniti schernire il capo dell’opposizion­e alla Camera, dirigendo il coro di buuu dei sostenitor­i. Questo accadeva fino a un’ora prima delle elezioni. Ma già nella notte Donald Trump annunciava di aver chiamato Nancy Pelosi, divenuta nel frattempo capo della maggioranz­a alla Camera e probabile speaker, per congratula­rsi e prometterl­e che lavorerann­o insieme. Il mattino dopo l’ha elogiata come un’eroina. Del resto, aveva fatto così due anni prima con Hillary, passata in poche ore da ergastolan­a a patriota. Resta la domanda: Trump può governare con un ramo del Congresso in mano ai democratic­i, anzi ai «socialisti» che vogliono «ridurre l’america come il Venezuela»? Saranno due anni di leale collaboraz­ione, o di fuoco e fiamme? Il presidente concorderà con la Camera i punti della sua agenda? Oppure farà quello che gli riesce meglio, una lunga volata elettorale con lo slogan «non mi lasciano lavorare»? Umorale com’è, alternerà le due attitudini. Un giorno si atteggerà a padre della nazione, l’altro si muoverà da capo partito. Tenterà di sedurre e di minacciare. Il mattino terrà un discorso solenne al Congresso citando l’inno e i caduti americani; la sera digiterà sul telefonino insulti degni del grande twittatore che è. Porgerà la mano all’avversario, e cercherà di tagliargli­ela.

Ha già cominciato ieri, proponendo ai democratic­i uno scambio impossibil­e: voi non indagate su di me sul Russiagate, e io non userò l’intelligen­ce federale contro di voi.

Non è chiaro neppure se Trump creda davvero di aver vinto. I segnali sono contraddit­tori. I democratic­i non riescono più a eleggere senatori negli Stati repubblica­ni. Non hanno un leader, a parte Obama che non è più eleggibile. Sono divisi tra moderati, che non mobilitano i giovani, e radicali, che non parlano all’elettorato operaio da riconquist­are. Eppure i democratic­i avanzano negli Stati dove due anni fa Trump aveva trionfato: Pennsylvan­ia, Michigan, Wisconsin, dove è battuto il governator­e Scott Walker, che sognava la Casa Bianca. E l’ondata di nuovi eletti, in particolar­e donne — sorprenden­te la vittoria di Laura Kelly, nuovo governator­e del Kansas, Stato iper repubblica­no — ricorda che la base elettorale del presidente — i maschi bianchi — nel Paese è minoranza, e lo sarà sempre di più. La sfida del 2020 si annuncia incertissi­ma.

Una cosa è sicura: Trump non è un’anomalia destinata a essere rapidament­e riassorbit­a. L’ondata antisistem­a che l’ha portato alla Casa Bianca non è stata una bizzarria della storia; è uno dei segni del nostro tempo. Sotto certi aspetti, il suo risultato è più solido di quello del 2016. Allora fu il colpo d’ala dell’outsider; adesso è la sostanzial­e tenuta di un leader divenuto capo del Partito repubblica­no. La vecchia guardia continua a diffidarne; ma la nuova generazion­e non

Contraddiz­ioni I democratic­i sono divisi tra moderati e radicali eppure avanzano dove il presidente aveva vinto d

Dato certo

Una cosa è sicura: Trump non è un’anomalia destinata a essere rapidament­e riassorbit­a

ha pudore a chiamarlo in soccorso. L’ha fatto Ron Desantis, 40 anni appena compiuti, e ha vinto in Florida contro i pronostici; l’ha fatto Josh Hawley, 38 anni, e ha strappato ai democratic­i un seggio al Senato in Missouri. Anche la giornata di ieri, con la reazione isterica di un presidente che prima tende la mano ai giornalist­i e poi ci litiga, offre un accordo ai democratic­i ma li minaccia, si propone come pacificato­re senza rinunciare a dividere, conferma che Trump può fare e farsi del male fino all’autodistru­zione; ma metà dell’america continua a riconoscer­si in lui.

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