Uno studente mi disse: «Hai il dovere di dire la tua»
Anticipazione Il fisico presenta il nuovo libro, in uscita oggi, con i suoi interventi di carattere civile e politico, edito dal «Corriere». Un appello per la collaborazione internazionale contro le suggestioni sovraniste Carlo Rovelli: senza vero dialogo
Mi chiedono in diversi perché invece di occuparmi solo di scienza — il mio campo di studio — scrivo articoli su diversi argomenti, anche con risvolti politici. A dire il vero me lo chiede soprattutto chi non ama quello che scrivo. Chi è molto in disaccordo con i miei articoli, poi, non perde occasione per ripetermi la domanda e invitarmi a tacere.
Ma è una domanda legittima e oggi, giorno in cui il «Corriere» mi fa il regalo di pubblicare una raccolta di miei articoli scritti lungo un decennio, mi sento un po’ in dovere di provare a rispondere. La memoria mi riporta subito a una conversazione con un mio studente, una quindicina di anni fa. Si chiamava Florian. Era un ragazzone con la barba, mite, un po’ timido, veniva da un paesino dei Pirenei. Aveva grande simpatia e grande cuore. Mangiavamo insieme un panino sotto uno dei pini del campus di Luminy dove insegno, vicino a Marsiglia; parlavamo del più e del meno e anche della situazione politica, come si fa. Non eravamo d’accordo su tutto, ma condividevamo le stesse preoccupazioni. D’un tratto lui mi chiese «Perché non scrivi pubblicamente le cose che dici?» Io risposi con le stesse parole che mi vengono ora qualche volta rinfacciate: «Se c’è qualcosa di cui sono competente è la fisica, sul resto non è meglio che stia zitto?»
Ricordo il suo sguardo, sorpreso, pieno di affettuoso rimprovero: «Sbagli — mi disse, usando un’espressione che non si era mai permesso con me —, non senti responsabilità verso il mondo? Non ti sembra tuo dovere dare il tuo contributo, condividere quello che pensi, se potrebbe essere utile ad altri? Se pensi che la comunità a cui appartieni sta facendo un errore di cui si pentirà, non ti senti in dovere di dirlo?» Gli chiesi subito: «Ma perché io?» E lui, candidamente: «Perché forse a te qualcuno fra la gente ti ascolta, per questo hai una responsabilità». Era più di quindici anni fa, non avevo ancora pubblicato libri per il grande publico, il mio nome era sconosciuto alla grande maggioranza di questa «gente» a cui Florian si riferiva. Non capivo cosa volesse dire.
La conversazione mi è tornata alla mente molte volte negli anni successivi, nei momenti di scelta. Mi ha chiesto collaborazioni per primo il supplemento culturale del «Sole 24 Ore», poi «Repubblica», giornali stranieri come il «Guardian» e il «Financial Times», e un giorno qualche anno fa ho ricevuto un invito dal direttore del «Corriere». Ogni volta ho esitato. Nella vita mi sono sentito spesso un outsider, con opinioni poco condivise. Prendere posizione pubblicamente su argomenti controversi significa attirarsi inimicizie; anche insulti. Il nostro Paese poi è poco abituato a scambi di opinioni rispettosi; invece che discutere iniziamo subito a insultarci. Mio padre, intelligente e cauto, si inquietava per me ogni volta che scrivevo qualcosa.
Ma alla responsabilità a cui mi chiamava Florian vi credo. È la responsabilità di ciascuno di noi verso la nostra comunità. Nessuno ha tutte le risposte in tasca, e ciascuno di noi è un granello, ma la vita collettiva, come il sapere scientifico, è un vasto dialogo quotidiano non facile, attraverso il quale si costruisce il nostro futuro. Ciascuno vi partecipa come può. Penso che chi ha il privilegio di un mestiere intellettuale fatto di studio, riflessioni, viaggi, incontri, letture, pensieri, abbia il dovere di non tenere i pensieri chiusi in torri d’avorio, ma offrirli a chiunque possa esserne curioso o utilizzarli.
Per questo ho scritto di scienza, ma anche di tutt’altro, cercando di condividere con chi volesse leggermi curiosità, entusiasmi, sconfinamenti verso la letteratura, l’antropologia, la filosofia; e per questo, soprattutto, c’è un sottotraccia politico in tante cose che scrivo. Per cercare nel mio piccolo di contribuire a questo dialogo incessante che tesse la nostra lettura del mondo e ci guida nel pensare il mondo di domani. La reazione di tanti lettori a quello che scrivo è stata per me una sorpresa. Scoprire che molte delle idee e dei sogni che credevo di nutrire in solitudine parlano al mondo e sono più condivisi di quanto pensassi è stato lo splendido regalo che mi hanno fatto i miei lettori. Il presente che viviamo è stato creato dai sogni del passato. Il futuro nascerà dalle speranze di oggi. Forse sono un sognatore, ma non sono il solo.
So anche che ci sono argomenti sui quali molti lettori del «Corriere» vedono le cose diversamente da me. Proprio per questo apprezzo la possibilità di scrivere sul «Corriere»: non serve a nulla scambiarsi opinioni quando siamo d’accordo, per rafforzarcele a vicenda. Non fa che polarizzare la società e rende più facili drammatici errori collettivi. A un intervistatore che gli chiedeva come fosse possibile che fossimo rimasti amici e avessimo scritto insieme tanti lavori di fisica nonostante le frequenti divergenze delle nostre opinioni, il mio amico e collega Lee Smolin una volta ha risposto «Se fossimo stati d’accordo su tutto, uno dei due sarebbe stato superfluo». Quando leggo, cerco di leggere chi ha idee diverse da me. Quando scrivo, non scrivo solo per chi ha le mie stesse idee: scrivo sopratutto per chi non le condivide.
All’invito del direttore del «Corriere», entrato per
la prima volta nella mitica via Solferino, ho trovato direttore, vicedirettore e responsabile della cultura ad accogliermi nello studio austero e profumato di legno della direzione. Ho scherzato, dichiarandomi onorato di essere ricevuto nella sede del supplemento al «Corriere dei Piccoli» (per me da ragazzino era questo il «Corriere»), ma mi sentivo davvero emozionato e onorato per essere invitato dal più grande giornale del mio Paese. Ho chiesto al direttore se avessi potuto scrivere su qualunque argomento e se avesse accettato opinioni contrarie alla linea del giornale. Mi ha risposto di sì, guardandomi negli occhi. Pochi giorni dopo gli ho mandato un articolo contro la partecipazione italiana a operazioni militari in Iraq, che in quei giorni era in discussione e che il «Corriere» appoggiava. L’articolo è stato pubblicato, e ho capito che il direttore era uomo di parola e il «Corriere» mi stava davvero offrendo la possibilità di fare arrivare la mia voce a molti. Era come se Florian mi fosse accanto: «Non puoi dire di no».
Da allora il direttore, Luciano Fontana, ha rispettato scrupolosamente la promessa. Non sono mancate discussioni anche appassionate con Giampaolo Tucci, il vicedirettore, a cui sono affezionato e grato per i suoi sforzi di arginare il mio dilettantismo e provare a temperare il mio radicalismo. Non sono mancate arrabbiature per titoli che secondo me non
coglievano il senso di un articolo, o per aver smorzato un pezzo pubblicandone accanto uno contrario. Ma ho sentito la fiducia del giornale, di Antonio Troiano in particolare, responsabile della cultura. Dopo diversi anni di collaborazione, capisco che il «Corriere» mi ha davvero lasciato libero anche se scrivo controcorrente, e ho imparato ad apprezzare l’apertura di spirito. Credo che questo sia il marchio dei grandi giornali del mondo, del «New York Times» e del «Guardian», e questo, più che il suo proverbiale perbenismo e la sua cautela, faccia del «Corriere» la risorsa preziosa che è per il Paese.
Senza nessuna presunzione, ma con la speranza di contribuire il mio granellino di sesamo per un mondo meno ingiusto, meno rapace, spero di continuare a scrivere. Provando a condividere con chiunque voglia leggermi quanto mi sembra di riuscire a vedere del mondo. Mai come in questo momento ho sentito la forza delle parole di Florian. Il disastro climatico si avvicina, senza che i governi lo affrontino. L’america ha votato un presidente indecente, il Brasile ha eletto un pericoloso leader di estrema destra, l’india è nelle mani di un estremo nazionalismo Hindu, la Russia è affascinata dall’illiberalismo di Putin. La primavera araba è naufragata quasi ovunque lasciando dittature sanguinarie. Austria, Polonia, Ungheria… si sono gettate sempre più a destra, nelle mani di leader che spingono per aggressività e tribalismi. Partiti di destra sempre più estrema crescono in molti Paesi. La nuova parola d’ordine del mondo, invece che «collaboriamo», sta diventando «prima noi». Le organizzazioni sopranazionali create per arginare la guerra sono in difficoltà. Gli Stati Uniti si ritirano dai trattati nucleari per aumentare il loro arsenale atomico. Tutte le nazioni stanno aumentando fortemente gli armamenti.
L’ultimo decennio è stato segnato da una crisi finanziaria e economica che ha portato a una concentrazione della ricchezza disgustosa, a un forte aumento della disparità sociale in tutto il mondo. Élites al potere che non hanno saputo arrestare e compensare questo processo sono state spazzate via dagli elettori. Ma invece di votare politici lungimiranti e competenti, capaci di mettere il mondo nella direzione di maggiore giustizia sociale, più collaborazione internazionale, meno guerra, gli elettori di tanti Paesi hanno finito per votare forze politiche aggressive e divisive che esacerbano le tensioni, spingono arroganti verso disastri, puntando il dito contro capri espiatori irrilevanti. Le ricchezze del nostro Paese si sono concentrate nelle mani di pochi, e la gente si fa annebbiare dai politici che invece di puntare il dito sui ricchi danno la colpa dei disagi ai più miserabili. La scena politica del mondo comincia pericolosamente a somigliare a quella degli anni Trenta, il periodo in cui molti intellettuali avrebbero fatto meglio a parlare. In Italia, anche il linguaggio aggressivo di allora si riaffaccia: «me ne frego», «io tiro diritto».
Sono convinto che queste forze, se continuano a prendere piede nel mondo, faranno presto molto male a tutti noi. Se aggressività e tribalismo continuano a prevalere su collaborazione, condivisione e giustizia, ne pagheremo sempre più il prezzo tutti. Potrei sbagliarmi, ma il rischio mi sembra troppo alto per tacere. Per questo mai come oggi ho sentito la forza delle parole di Florian e il suo richiamo alla responsabilità. Quindi no, anche se la mia stretta competenza professionale è la fisica, prima di essere un fisico sono un cittadino: non smetto di scrivere, anche di politica.