Rischio assedio sul caso Sessions
Quando, nel 2016, Jeff Sessions fu il primo esponente repubblicano di peso a schierarsi con The Donald, Trump non era ritenuto un vero candidato per la Casa Bianca.
Quando, nel febbraio 2016, Jeff Sessions fu il primo esponente repubblicano di peso a schierarsi con Donald Trump, a quel tempo ancora considerato un candidato improbabile per la Casa Bianca, non immaginava di certo che quel gesto sarebbe stato l’inizio della fine della sua carriera politica. Attese da tempo, da quando Trump l’aveva ripetutamente insultato in pubblico arrivando a chiedersi «che razza di uomo è questo?», le dimissioni del ministro sono arrivate ieri, poche ore dopo il voto. Sessions ha compiuto un passo che, ha scritto, gli è stato richiesto dal presidente: dimissioni per evitare di essere cacciato.
Sessions paga la sua correttezza istituzionale: l’aver ricusato sé stesso dalle indagini sulle interferenze russe in una campagna elettorale, quella del 2016, alla quale lui stesso aveva partecipato, col conseguente rischio di conflitto d’interessi. E Trump, evidentemente poco preoccupato da accuse di interferenze presidenziali sui poteri giudiziari, lo ha provvisoriamente sostituito non col suo vice, l’odiato Rod Rosenstein, ma col capo di gabinetto dello stesso Sessions: Matthew Whitaker, un avvocato ed ex giocatore di football americano che il braccio destro del presidente, il capo del suo staff, John Kelly, aveva definito «gli occhi e le orecchie della Casa Bianca nel ministero della Giustizia».
Un caso che mostra quanto la separazione dei poteri sia poco sentita dal presidente. Lui, però, ora sarà costretto a cambiare registro con la Camera a guida democratica che rimetterà in moto il tradizionale sistema politico americano basato su pesi e contrappesi. Il rischio, per lui, è quello di un assedio giudiziario, potenziato dall’inchiesta del superprocuratore Mueller. Il «dimissionamento» di Sessions potrebbe preludere anche al licenziamento dell’investigatore dell’fbi o a un ridimensionamento della sua indagine.
Fino a qualche mese fa Trump sembrava avere le mani legate dai repubblicani in Congresso: i senatori minacciavano di non ratificare la nomina di un successore se il presidente avesse cacciato Sessions, un loro ex collega. Ma il clima è cambiato man mano che Trump ha rafforzato il suo controllo sul partito. Nel nuovo Congresso che si insedierà a Capodanno il presidente, in minoranza alla
Camera, avrà il controllo assoluto del Senato (unico organo con poteri di ratifica delle nomine presidenziali): maggioranza repubblicana più ampia e uscita di scena dei senatori di destra che nella legislatura attuale l’hanno spesso contestato (lo scomparso Mccain e i due, Corker e Flake, che non si sono ricandidati).
La rapidità con la quale sta agendo fa, però, supporre che il presidente potrebbe tentare un blitz contro Mueller anche prima dell’inizio della prossima legislatura, nel timore che il superprocuratore, superata la scadenza elettorale, tiri fuori un dossier giudiziario contro di lui. Documenti che potrebbe diventare la base di una raffica di indagini parlamentari della nuova Camera.