Corriere della Sera

UNA FRAGILE DEMOCRAZIA

Il trend illiberale Dopo la crisi, gli scontenti formano maggioranz­e che si ergono contro le élite precedenti

- Di Giuliano Amato

L’articolo di Giuliano Amato è una introduzio­ne ai «Dialoghi sul trend illiberale» organizzat­i a Milano da Reset, la rivista web diretta da Giancarlo Bosetti, insieme alla Fondazione Zampa e all’università Statale di Milano, dove (Scienze politiche in via del Conservato­rio 7) si terranno i seminari e gli incontri pubblici. Il primo di questi, domani pomeriggio alle 18, con Yascha Mounk e Giuliano Amato è dedicato alla «fragilità della democrazia».

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urante il ventesimo secolo, specialmen­te nella seconda metà, siamo vissuti nell’illusione che la democrazia potesse prosperare in qualunque circostanz­a. Oggi rimaniamo sorpresi dalla sua fragilità, dal suo «deconsolid­amento» — per usare le parole di Yascha Mounk — davanti alle scosse a cui è soggetta.

Questa illusione viene dal passaggio – che si riteneva il più pericoloso per la democrazia elitaria uscita dall’ottocento – al suffragio universale e all’apertura dei canali democratic­i. Soltanto ora, forse, riusciamo a capire quanto dobbiamo ai partiti politici, a quello straordina­rio animale che venne creato tra la fine dell’ottocento e l’inizio del Novecento, capace di un metabolism­o che unificava preferenze diversific­ate paradigmi individual­i ideologici e le riconducev­a, e di gruppo condivisi, fortemente attraverso a visioni e macchina aspettativ­e Anche nel funzionava secondo comuni. dopoguerra senza incepparsi, questa sino comuni a quando, hanno da continuato una parte, a le fare ideologie da elemento goduto unificator­e di una prosperità e, dall’altra, economica abbiamo che costose. riusciva a soddisfare domande diverse e

La situazione ha iniziato a precipitar­e quando i bilanci sono diventati meno capienti e le ideologie hanno cessato di essere persuasive. La grande arma che aveva avuto, per esempio, in Italia il Partito comunista e che era quella di tenere la disciplina nel presente in nome di una grande promessa nel futuro, non ha funzionato più. È entrato in campo, e in modo incontrast­ato, il presente e in condizioni economiche peggiori, rendendo più frammentat­e le istituzion­i democratic­he.

È cominciata così la prima fase di crisi della democrazia, minata proprio dalla sua incapacità decisional­e: i regimi autoritari, al contrario, riescono a tenere insieme la società, hanno una capacità decisional­e che la democrazia sta perdendo.

Resa già così fragile, la democrazia è poi entrata in un mondo nel quale il potere si sposta sopra i suoi confini statuali: un potere che premia alcuni e danneggia altri e che nei Paesi tradiziona­lmente democratic­i ha generato invece forti squilibri, arricchend­o alcuni e creando per contro un alto numero di infelici, con salari ridotti e lavori sempre più precari.

A questo punto, ecco la seconda fase di crisi della democrazia: quella in cui coloro che sono scontenti diventano maggioranz­e trasversal­i, che si ergono contro le élite precedenti, accusate di averli dimenticat­i, e contro chi arriva da fuori. Per anni ci eravamo domandati come si potevano creare maggioranz­e non avendo più partiti e con società così variegate. Ma ecco che le tensioni centrifugh­e generano partiti estremi, nei quali lo scontento, la paura, il sentimento antiestabl­ishment, il complottis­mo, la necessità di trovare un nemico esterno fanno da elementi coesivi. E arrivano a dar vita così a maggioranz­e.

Così, però, le democrazie diventano ancora più malate: lo erano prima perché non avevano più una maggioranz­a, lo sono ancora di più ora perché una maggioranz­a si crea, ma non per rafforzare i principi democratic­i, bensì per metterli in dubbio o negarli. In tutti i casi in cui si manifesta la tendenza illiberale si regge su un fattore identitari­o che dà al sentimento nazionale una accezione vicina al vecchio nazionalis­mo esclusivo e ostile, che fa leva sul dato etnico. In Italia, salvo il breve periodo dell’impero coloniale e delle leggi antiebraic­he, siamo stati sempre orgogliosi di una accezione culturale e non etnica del concetto di «nazione», perché espression­e di decine di etnie diverse che si sono integrate in questa penisola. Al contrario, oggi si sta tornando a una connotazio­ne etnica e insieme religiosa della Nazione. L’idea che sia democratic­o ciò che esprime la maggioranz­a e, al tempo stesso, la maggioranz­a abbia una connotazio­ne etnico-religiosa omogenea che come tale si contrappon­e a

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La svolta

La situazione è precipitat­a quando i bilanci sono diventati meno capienti e le ideologie hanno cessato di essere persuasive

tutto il resto, può generare solo conflitto e autoritari­smo.

Si può «addomestic­are il nazionalis­mo», come propone Mounk, e come? Le modalità non sono solo istituzion­ali: è necessario lavorare sulle culture collettive con politiche culturali che affrontino il problema dell’incontro-scontro tra gruppi appartenen­ti a religioni diverse e aventi provenienz­e etniche differenti. Non è vero, come vuole talvolta un certo superficia­le schematism­o della sinistra, che i diversi messi insieme si arricchisc­ano a vicenda senza mediazioni, che ci sia una automatica cross-fertilizat­ion. Anche la psicanalis­i ci dice il contrario, che lo sconosciut­o è fonte di paura.

Certamente, le democrazie occidental­i hanno la responsabi­lità di difendere alcuni valori ai quali attribuisc­ono valenza universale: questo significa, per esempio, prendere atto che la uguale dignità non riguarda soltanto i capi famiglia maschi, ma ciascun componente della famiglia e questo si dovrebbe imparare ancora prima della lingua. Ma, dalla nostra parte, dobbiamo anche arrivare ad accettare odori, rumori, abitudini, riti a cui tendenzial­mente non siamo abituati e accorgerci che i nostri vicini sono diversi, ma un adattament­o reciproco è possibile.

Conta però, non di meno, ridare prospettiv­e a tutti di migliorame­nto delle condizioni di vita. E ricreare attorno al lavoro e attraverso il lavoro una scala mobile che si è fermata. Non dimentichi­amo che in un Paese come l’italia, sino a dieci anni fa, entravano annualment­e, sulla base di domande di lavoro provenient­i dalle imprese e dalle famiglie, 170 mila, anche 200 mila immigrati l’anno, ben di più degli irregolari entrati dopo. Ma di loro non si accorgeva nessuno perché andavano a riempire una domanda di lavoro. È stata la convergenz­a tra la crisi economica e l’immigrazio­ne clandestin­a a darci la sensazione di una invasione che non c’è.

C’è il rischio che questa torsione autoritari­a e illiberale della democrazia si consolidi e non si riesca a fermarla in tempo utile? Oggi è un rischio che corriamo, rafforzato — va aggiunto — da una informazio­ne ormai inquinata, agitatrice, estrema essa stessa nell’amplificar­e i motivi di contrappos­izione e di ostilità. Lo corriamo in Paesi diversi, ma non è detto che la risposta sia eguale per tutti, giacché non è eguale per tutti la forza dei contrappes­i e degli antidoti. La storia, poi, non è determinis­ta. Ci può sempre fare delle sorprese, buone o cattive; così come noi, se vogliamo e ne siamo capaci, possiamo fare delle sorprese a lei.

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