E il «mister» Tai alle cene mi promosse numero 10
Critico
Non conoscevo quasi nessuno in quella cena a casa di Gianni Brera, sul lago di Pusiano, nell’autunno del 1975. Ma simpatizzai immediatamente con un signore bello e aitante, che scambiai per un playboy. Nel mondo del calcio c’è sempre un seduttore che affianca i tecnici e approfitta della propria avvenenza. Mentre il nuovo amico parlava di Nereo Rocco, non seppi trattenermi, e chiesi di che cosa si occupasse. «No, mi faso maglie», disse con accento triestino-dalmata. Il giorno dopo, una pagina di pubblicità su un quotidiano mi spiegò che si trattava di Ottavio Missoni. Era nata un’amicizia che si sarebbe rivelata forte e profonda. Negli ultimi anni della sua vita, Ottavio aveva creato un suo cenacolo, o una sua lobby, alla quale mi onoro di aver partecipato. I sodali erano una quindicina, più o meno. Missoni telefonava verso mezzogiorno («stasera si gioca», diceva), e chi poteva poteva. L’appuntamento era in un famoso ristorante. Non molto tempo prima di andarsene, Ottavio mi rivelò che nella sua testa ognuno di noi aveva un numero, come in una ideale squadra di calcio. «Tu hai il numero 10», disse. Per tutta la vita, avevo sperato di poter essere un numero 10, cioè un centrocampista, un distributore di gioco, magari con qualche proiezione offensiva. Nella sua prestanza fisica, con la sua lunga falcata che gli aveva permesso di andare in finale alle Olimpiadi del 1948, Missoni, con la sua stazza dalmata che seduceva anche a ottant’anni, forse aveva captato i miei desideri, e li riteneva giustificati, tanto da accoglierli nella sua squadra, formata da tutti giocatori eccellenti: Fulvio Scaparro, Carlo Tognoli, Enzo Bettiza, Piero Ostellino, Maurizio Nichetti, Tullio Pericoli, Renato Mannheimer, Luigi Collarini, Franco Ascani, e via dicendo. Quel giorno pensai di non aver sbagliato ambizioni, e forse neppure pratiche di vita per realizzarle. Lo pensava Missoni (che amavo), potevo pensarlo anch’io.