Corriere della Sera

Fresu: «Porto a teatro il furore e la tragedia di Chet Baker»

- Giuseppina Manin

«Èstato un mito del ‘900 musicale. Se Miles Davis è il grande architetto del jazz, Chet Baker ne è il poeta», assicura Paolo Fresu, trombettis­ta sardo tra i più apprezzati al mondo, scrittore, animatore culturale, ricercator­e etnografic­o. Ora per la prima volta coinvolto in un progetto teatrale che rende omaggio a quell’angelo del jazz dal cuore di tenebra.

Bello e dannato come James Dean, anche lui vissuto pericolosa­mente, devastato da alcol e droghe, morto prima del tempo, volato giù dalla finestra di un albergo di Amsterdam il 13 maggio 1988. «Ma l’anniversar­io, i 30 anni da quella tragica fine ancora avvolta nel mistero, è casuale — prosegue Fresu —. Quel che volevamo far rivivere è la sua storia, così disperatam­ente umana, e la sua musica così limpida e trasparent­e, intrisa di furore e malinconia come il suo sguardo».

E allora, da questa sera al Comunale di Bolzano, è Tempo di Chet. La leggenda di Chet Baker, spettacolo che intreccia la scrittura drammaturg­ica di Leo Muscato e Laura Perini con la partitura musicale scritta da Paolo Fresu. Otto attori e tre musicisti, Fresu alla tromba e al filicorno, Dino Rubino al piano, Marco Bardoscia al contrabbas­so, insieme per creare un flusso di parole e musica capace di evocare quella vita spericolat­a e meraviglio­sa.

«In realtà si tratta di una vera opera jazzistica — spiega Fresu —. Non solo il percorso di un genio maledetto, ma anche uno spaccato di storia della musica del secolo scorso e di un’epoca tormentata che ha visto Baker protagonis­ta negli Usa e anche in Italia, Paese da lui amatissimo, che frequentò a lungo». Tra sogno e memoria, Chet rincontrer­à le ombre del passato, le donne, i figli, i critici, i fan, i pusher. Il padre che gli regala la prima tromba, i successi, gli eccessi, il volo fatale... «Mi sento vicino alla sua filosofia del suono, e anch’io ho scoperto da piccolo la magia della tromba. Mio fratello maggiore la suonava nella banda, e per la mia famiglia di pastori poverissim­i era come una reliquia. Da sistemare sul piano più alto della libreria per renderla irraggiung­ibile. Quando a 11 anni riuscii a tenerla tra le mani, l’emozione è stata grande».

Un amore che dura da trent’anni. «Per fortuna in modo meno drammatico dei tempi di Baker. I jazzisti oggi sono in gran parte salutisti. Alcol e droghe non aiutano a diventare bravi musicisti, al contrario distruggon­o il talento. Quel che servirebbe è far nascere nuovi spazi dove i nuovi jazzisti, e in Italia ce ne sono tanti di straordina­ri, potessero incontrars­i e suonare insieme. La poesia del jazz nasce così».

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TrioPaolo Fresu (al centro) con i musicisti Dino Rubino (pianoforte) e Marco Bardoscia (contrabbas­so)

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