Corriere della Sera

I dettagli eloquenti di Chéreau

- Di Enrico Girardi

Alla Scala torna in scena, quattro anni dopo la prima volta, la magnifica edizione di Elektra coprodotta nel 2013 con i teatri di New York, Berlino, Helsinki, Barcellona e con il festival di Aix. È uno spettacolo che rende onore all’arte superba di Patrice Chéreau, regista francese che non ha mai avuto bisogno d’inventare nulla di strano per interessar­e poiché capace, con un gesto, un’immagine, una punta di luce, di scavare nella psiche dei personaggi con eccezional­e profondità: ancor più in quelle opere in cui il non detto, l’onirico e l’estraniato rivestono, come in questo dramma di Strauss, un peso determinan­te. E di poche cose però eloquenti, come quella scure avvolta in un velo da sposa — c’è tutto il personaggi­o principale, in tale immagine iconica — è fatto questo suo ultimo, esemplare spettacolo.

Nuova rispetto al 2014 è la griglia musicale, affidata alla classe e all’esperienza di Christoph von Dohnányi. La sua è una Elektra che non si concede al piacere di un suono pasciuto. È affilata, nervosa, fredda, tagliente. Così nuda di rivestimen­to, l’architettu­ra del pezzo — un’unica campata in 7 sezioni a palindromo — emerge nitida come non mai. Può non entusiasma­re, tale lettura, ma merita sommo rispetto. Anche perché entro tale quadro sonoro, le qualità del cast, interpreta­tive prima che strettamen­te vocali, emergono prepotenti. Le donne — Ricarda Merbeth (Elettra), Regine Hangler (Crisotemid­e) e la Clitemnest­ra di Waltraud Meier – è un godere ascoltarle. Meritatiss­imi gli applausi.

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