Ogni euro prodotto ne genera 1,8 Così la cultura crea ricchezza
Scenari Un saggio di Paola Dubini edito da Laterza calcola le ricadute economiche del settore. E sfata i luoghi comuni
La cultura non è affatto «il petrolio dell’italia». Però è un diesel. Una battutaccia? Per niente. È la tesi di Paola Dubini, docente alla Bocconi di Economia delle istituzioni culturali e autrice del libro «Con la cultura non si mangia» (Falso!), voluto fortissimamente da Giuseppe Laterza al quale ronzavano da anni nelle orecchie quelle parole attribuite a Giulio Tremonti.
Attribuite a torto o a ragione? Spiega Dubini che lui, l’allora ministro dell’economia, «nega di averla mai detta; la frase corretta, pronunciata in privato e destinata all’allora ministro Sandro Bondi che si lamentava per i tagli alla cultura, sarebbe: “In tutta Europa, anche a Parigi e Berlino, stanno tagliando i fondi alla cultura. È molto triste, una cosa terribile, lo capisco. Ma vorrei informare Bondi che c’è la crisi, non so se gliel’hanno detto: non è che la gente la cultura se la mangi”».
Sono passati trentaquattro anni da quando l’allora ministro del turismo, il socialista Lelio Lagorio, in visita a una fiera di Verona, disse: «I veri “giacimenti” dell’italia sono quelli della cultura e del turismo, superiori a quelli di petrolio». Fu il primo, per
Strategie
Gli investimenti culturali sono «diesel»: non di per sé costosi purché continui
quanto se ne sa. Da allora, a partire dalle ripetute invocazioni di Gianni De Michelis ai «giacimenti culturali», esplicito richiamo ai «giacimenti di greggio», la metafora è stata utilizzata mille volte. A proposito o a sproposito?
A sproposito, sostiene Dubini: «Se i monumenti, le opere d’arte (per stare al patrimonio culturale materiale) fossero risorse come il petrolio, sarebbero innanzitutto non rinnovabili e destinate a esaurirsi. E invece è esattamente il contrario: per il solo effetto dello scorrere del tempo, la consistenza fisica del patrimonio cresce». Di più: «Se fossero risorsa materiale potrebbero essere trasferiti e scambiati; mentre invece il patrimonio culturale è sottratto al mercato e la sua commercializzazione è soggetta a limitazioni fortissime, in Italia, come all’estero. È difficilissimo estrarre valore da qualcosa che non vale nulla per il mercato. Pensiamoci: l’espressione “di inestimabile valore” che spesso si associa alle opere d’arte e al patrimonio va interpretata nel suo significato letterale: non si può stimare il valore del patrimonio, perché la stima sfugge alle regole di mercato, in quanto non c’è mercato».
In compenso, scrive l’economista «la cultura “è un diesel”: può operare processi di trasformazione sistematica quando da esercizio estetico diventa pratica, esercizio di benessere personale e collettivo, come camminare, lavarsi e salutarsi per strada: pratica etica e politica per tutti, secondo gusto, sensibilità, curiosità intellettuale e capacità di ascolto. Non è un investimento di per sé costoso, purché sia sostenuto con continuità».
E questo è il punto: per quanto il ministro Dario Franceschini «abbia avuto il merito di far aumentare le risorse destinate alla cultura», spiega Dubini, «lo 0,28% della spesa dello Stato nel 2017 è una percentuale ridicola». Per capirci: nel 1955, quando la Lambretta era quasi un lusso e l’italia stava appena riprendendosi dopo la guerra (non era stato ancora ricostruito, per dire, il ponte di Santa Trinita a Firenze distrutto dai tedeschi), lo Stato destinava ai beni culturali lo 0,80% del proprio Pil. Quota scesa all’inizio del XXI secolo a un miserabile 0,19%. Un quarto. Una vergogna.
La cultura infatti, insiste la studiosa, «è “portatrice sana” di ricchezza (materiale e immateriale). Gli studi sul contributo economico della cultura al Pil nazionale riconoscono percentuali di tutto rispetto: secondo la comunità europea i settori culturali e creativi sono fra i più dinamici in Europa e contribuiscono al 4,2% del Pil europeo». In Italia, «l’ultima indagine Symbola-unioncamere stima nel 2018 il perimetro del sistema produttivo culturale e creativo in oltre 92 miliardi di euro di valore aggiunto, così ripartiti: oltre 13 miliardi provenienti dai settori creativi (architettura, comunicazione, design), circa 34 miliardi dai settori culturali (cinema, radio, tv, videogiochi e digitale, musica, stampa, editoria), 3 miliardi dal patrimonio storico-artistico, quasi 8 miliardi dalle arti performative». Cultura anche i videogiochi? Certo, ammette l’autrice, «si tratta di una definizione di perimetro molto ampia, anche se coerente con le definizioni in uso». Fatto è che «questo insieme di operatori rappresenta il 6% della ricchezza prodotta in Italia nel 2016, in crescita del 2% rispetto all’anno precedente». Lo stesso rapporto Symbola-unioncamere 2016, dice che «la cultura ha sul resto dell’economia un effetto moltiplicatore pari a 1,8: in altri termini, per ogni euro prodotto dalla cultura se ne attivano 1,8 in altri settori».
Esempi? «Una ricerca svolta nel 2012 sul contributo del Teatro alla Scala all’economia di Milano ha rilevato che ogni euro di contributo pubblico genera 2,7 euro di ricchezza per la città, pari a 200 milioni di euro; un’analoga ricerca sull’arena di Verona del 2013 mostra un contributo di 450 milioni e uno studio sul Teatro la Fenice del 2014 dichiara una ricaduta di 50 milioni. La ricerca più recente (…) riguarda il contributo del Museo Egizio di Torino all’economia della città, stimato in 187 milioni di euro».
Soldi in buona parte dovuti ai turisti, «possibilmente internazionali». La stessa conclusione alla quale arrivò la ricerca capillare «Il nostro Paese visto con gli occhi degli altri» condotta da Confimprese-nielsen tra i visitatori stranieri in Italia: il 79% aveva scelto tra le priorità le città d’arte. E il 28% di questi «solo» le città d’arte. Una quota che nel Veneto, primissimo in Italia per presenze turistiche, sale al 40%. Di più: la spesa media giornaliera di un turista al mare è di 67 euro, al lago 76, in montagna 102, in visita culturale 134. A farla corta: «Con la cultura si mangia... e si fanno mangiare gli altri».
Per non dire, sottolinea giustamente Paola Dubini, di «un altro aspetto da considerare quando si esaminano le ricadute dell’investimento in cultura: aiuta a risparmiare su altro. Non solo le statistiche europee ci dicono che esiste una prevedibile correlazione fra investimenti in cultura, scolarità e riduzione degli abbandoni scolastici, ma gli investimenti in cultura sono correlati alla salute, all’abbassamento dei livelli di criminalità, all’aumento della qualità percepita della vita». Ricordate cosa diceva monsignor Giancarlo Bregantini, a lungo vescovo di Locri? «Un ragazzo che cresce in un posto brutto è più facile che cresca brutto». Vale anche l’esatto contrario. Dove investire dunque, se non nella cultura?
Bilanci Secondo le stime il settore contribuisce al 4,2 per cento del Pil della Ue