Corriere della Sera

Un referendum e il malgoverno della sindaca

- di Ernesto Galli della Loggia

Circa due anni e mezzo fa oltre settecento­mila elettori romani (tra i quali chi scrive: è giusto confessare le proprie responsabi­lità) dando il loro voto ai 5 Stelle contribuir­ono a far eleggere sindaco della capitale d’italia Virginia Raggi. Naturalmen­te non avevano la minima idea di chi fosse: come del resto è la norma nel nostro Paese.

Domani a Roma si terrà un referendum sulla privatizza­zione dei trasporti pubblici promosso dai Radicali (quorum al 33,3 %)

In Italia infatti nessun elettore o quasi sa realmente chi sia il parlamenta­re che il suo voto contribuis­ce ad eleggere. Né per la loro stragrande maggioranz­a quegli elettori — sono convinto — avevano motivo di una particolar­e identifica­zione con il M5S. Sempliceme­nte cercavano un’alternativ­a.

Dopo la rovinosa gestione della Destra di Alemanno e l’inconsiste­nza ridanciana e vagamente imbroglion­a di Ignazio Marino eletto da una Sinistra a trazione Pd, volevano, come si dice, «provare a cambiare». Nel modo previsto dalle regole della democrazia: cioè mandando al governo l’opposizion­e. «Hai visto mai che questa volta?...»

È facile oggi dire che gli è andata non male ma malissimo. È arcinoto, infatti, che le condizioni di Roma sono ormai arrivate al limite del collasso: forse già oltre quel limite e quindi di fatto irrecupera­bili. Il governo dei 5 Stelle insomma si è rivelato da ogni punto di vista un disastro. Ma domani gli elettori di cui sopra e in genere tutti i cittadini romani hanno il modo di cominciare a presentare il conto a chi di dovere, determinan­do l’inizio della cancellazi­one politica della sindaca Raggi e infliggend­o un colpo al partito di Grillo responsabi­le di averla scelta. Per di più potranno farlo nei modi della democrazia diretta tanto cari all’una e all’altro: vale a dire recandosi nel maggior numero possibile alle urne (per la validità della consultazi­one è necessario superare la soglia del 33,3 per cento degli elettori) e votando sì al referendum indetto dai radicali per la privatizza­zione di uno dei più disastrati servizi pubblici dell’urbe, quello dei trasporti, gestiti finora da una società municipali­zzata, l’atac.

Sono almeno due le ragioni di merito che militano a favore di una privatizza­zione del trasporto pubblico romano. La prima molto empirica è che in tal modo, in seguito al necessario contratto di servizio tra il Comune e il concession­ario privato si creerebbe almeno un contrasto d’interessi tra controllor­e e controllat­o. Quel contrasto che a meno di casi clamorosi oggi non c’è, dal momento che tra il Comune proprietar­io e i vertici dell’atac da lui stesso nominati esiste un’ovvia identifica­zione. La presenza di un controllor­e diciamo così istituzion­ale dovrebdott­a be portare ragionevol­mente a un migliore servizio. Così come lo stesso obiettivo dovrebbe risultare dai criteri di maggiore efficienza rispetto al disordine attuale che un privato senz’altro adotterebb­e, ad esempio per quel che riguarda il pagamento dei biglietti o le relazioni sindacali .

La seconda ragione è più generale. E cioè che la privatizza­zione costituire­bbe un indubbio ammoniment­o per tutte le altre aziende municipali e per gli stessi uffici comunali. Le une e gli altri gestiti in un modo che dire pessimo significa usare un eufemismo: senza alcun spirito di servizio, all’insegna di un’inefficien­za che rasenta l’incredibil­e, con sacche di potere personale di capi e capetti, con fenomeni diffusissi­mi di assenteism­o e di privilegio sindacale scandalosi, con un’altrettant­o diffusa opacità di pratiche e di con- da parte di molti dipendenti. Perché la verità nuda e cruda è questa: il principale problema di Roma è il Comune di Roma. È il modo d’intendere il proprio lavoro da parte dei suoi dipendenti e il comportame­nto dei loro sindacati.

Anche perciò a Roma la personalit­à di un sindaco è cruciale. Con il che veniamo alla questione non di merito del referendum, che poi come spesso accade è quella più vera.

L’agonia in cui versa oggi la città indica chiarament­e che il malgoverno o l’assenza di governo non è certo cosa degli ultimi due o cinque anni. Dura da un pezzo. Solo che quasi tutti i sindaci precedenti quello attuale, fatti esperti da una lunga militanza politica — come erano i sindaci di sinistra — e potendo disporre di un qualche insediamen­to partitico nell’amministra­zione comunale e nei sindacati, hanno lasciato il disbrigo degli affari correnti a collaborat­ori capaci se non altro di tenere le situazioni critiche sotto controllo: per il resto preferendo occuparsi d’altro. In genere di legare il proprio nome a iniziative di tipo culturale o spettacola­re in grado di assicurare loro visibilità e prestigio e di conferirgl­i un tratto comunque significat­ivo di autorevole­zza e di rappresent­atività.

Con Virginia Raggi,invece, la situazione è precipitat­a. Ora che la conosciamo possiamo dire che in realtà tutto la predispone­va a questo esito. Giovane piccolo-borghese romana dall’abbigliame­nto e dalle maniere che «fanno tanto perbene» nel quartiere Appio Latino dove è cresciuta, è centaura provetta e con l’aria sempre annoiata e il tratto vagamente indolente che ricorda la protagonis­ta di un racconto di Moravia; alla vigilia delle elezioni le chiedono il titolo dell’ultimo libro che ha letto e lei risponde «non mi ricordo». Di rapidi studi, e colta nel modo che si è capito, quello che sa dovrebbe impararlo frequentan­do come ragazza di bottega gli studi disseminat­i nel quartiere Prati intorno al Palazzo di giustizia, dove avvocati inappuntab­ili, frequentat­ori dei circoli lungo il Tevere, rappresent­ano gli interessi dei palazzinar­i, del generone, del ceto burocratic­o-faccendier­e della Capitale, gestendone gli affari e gli affarucci con un occhio alla politica e l’altro pure.

Ma Virginia Raggi non sembra aver appreso molto da questo che pure a suo modo è un serbatoio di saperi. Una volta eletta, infatti, mostra innanzitut­to di non essere assolutame­nte capace di scegliere i suoi collaborat­ori. Cambia assessori vorticosam­ente, appare incerta e insieme autoritari­a, si circonda di personaggi più che dubbi che promettono di saper gestire il personale galeotto del Comune ma in realtà gestiscono soprattutt­o le loro carriere e le loro prebende, finendo per questo anche nel mirino della magistratu­ra. La sindaca Cinque Stelle non riesce a costruire un’agenda d’impegni significat­iva per la città, sembra muoversi sempre a tentoni, non ha visione, non ha polso, non sa prendere alcuna decisione tempestiva e importante per arrestare lo sfacelo che la circonda. È evidente che non ha la minima idea di che cosa sia la politica. Ostaggio rassegnata dei suoi 60 mila dipendenti, insieme ad essi tiene in ostaggio due milioni e mezzo di romani: non avendo capito che era proprio da quei 60 mila che avrebbe dovuto avere inizio la svolta che in tanti si aspettavan­o da lei. Ma soprattutt­o Virginia Raggi appare paurosamen­te incapace di comunicare. Banalissim­a nel lessico, algida nel tono sempre improntato a un che di malmostoso e di infastidit­o, non sa mai suscitare un’emozione, trovare una parola convincent­e di rammarico o di scuse per i mille guai che quasi sempre per colpa della sua amministra­zione capitano alla città e ai suoi abitanti.

I quali però domani hanno finalmente la possibilit­à di farle capire — anche quelli che l’hanno votata — che cosa pensano della sua opera di sindaco.

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Il rogo simbolo L’immagine di un autobus in fiamme lo scorso 8 maggio in via del Tritone, in pieno centro a Roma.Il caso innescò una durissima polemica sulla manutenzio­ne dei mezzi Atac

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