Pennsylvania, la disfatta di Hillary «vendicata» dalle Brillanti Quattro
Susan e le altre elette: la risalita dei Democratici nello Stato che li scaricò nel 2016
L a sera dell’ultimo comizio – qui nell’independence Hall, davanti a migliaia di sostenitori certi della vittoria —, Barack Obama si chinò verso Hillary Clinton, la abbracciò e le sussurrò all’orecchio: «È fatta. Sarai presidente. E io sono orgoglioso di te».
La fine è nota. Philadelphia non è stata solo la tomba dei Democratici, due anni fa. È stata la culla della dichiarazione di indipendenza e della Costituzione americana. Stato fondatore degli Usa e fondativo della sua identità, la Pennsylvania è la terra delle grandi dinastie dell’industria pesante, i Carnegie e i Frick, che facevano sparare dalle milizie private sugli scioperanti e poi si lavavano l’anima aprendo sale per concerti e collezionando capolavori del Rinascimento italiano. I loro operai di un tempo sono quelli raccontati da Michael Cimino ne Il cacciatore, il film dove passano dalla caccia al cervo per distrarsi dalla routine della fabbrica alla roulette russa nelle prigioni dei vietcong.
Oggi a Philadelphia gli operai licenziati li trovi in gigantesche sale piene di slot-machine, in cui infilano i gettoni pescandoli dalle scatole per il pop-corn, con lo stesso ritmo rassegnato con cui lavorarono per anni alla catena di montaggio. «Philly», la patria di Rocky Balboa e dei marines (il corpo fu fondato qui nel 1775), è oggi la città più povera degli Stati Uniti. Su un milione e mezzo di abitanti, almeno 150 mila restano sotto la soglia della miseria. Sono quasi tutti neri. Elettori democratici, spesso delusi.
Qui la sinistra ha comandato per settant’anni, accumulando potere e denaro: il leggendario senatore Vince Fumo collezionò da solo 137 condanne per corruzione. Nel 2012 il candidato repubblicano alla Casa Bianca Mitt Romney protestò perché in 59 circoscrizioni non c’era neanche un voto per lui; tutti, almeno secondo gli scrutatori, avevano scelto Obama.
Nel 2016 il colpo di scena. Hillary, fiutato il pericolo, pensava di aver posto rimedio scegliendo Philadelphia per la sua convention e per la chiusura della campagna elettorale. Ma Trump fece di meglio: tenne un comizio nel posto meno affascinante del mondo, un impianto per lo smaltimento di rottami, e disse che l’america aveva tradito i suoi figli in nome del globalismo. Nessun sondaggio aveva colto lo spostamento dell’elettorato operaio e bianco sul nuovo presidente. Che lanciò un segnale di riconoscenza, introducendo i dazi sulle importazioni di acciaio.
Martedì scorso la ruota della storia ha dato un altro giro. E i Democratici hanno recuperato. Il governatore Tom Wolf è stato rieletto con 17 punti di vantaggio sul repubblicano Scott Wagner, che su Facebook aveva simpaticamente minacciato di spaccargli la faccia con la mazza da golf. Il senatore democratico Bob Casey ha battuto l’italoamericano Lou Barletta riconquistando parte del voto dei minatori in pensione, cui ha promesso una nuova assicurazione sanitaria.
Nei 18 collegi della Camera è finita 9 a 9; due anni fa avevano vinto i repubblicani 12 a 6. Nei distretti operai i democratici si sono affidati a candidati centristi, per non dire di destra. Come Conor Lamb, ex militare, militante antiabortista, che si è fatto fotografare mentre imbraccia il suo fucile e si è espresso a favore dei dazi di Trump. Ma i quotidiani locali sono pieni di foto delle Fab Four, le favolose quattro, come si definiscono.
Sono Susan Wild, militante del #Metoo. Mary Gay Scanlon, storica avvocata dei diritti civili. Chrissy Houlahan, veterana dell’esercito. Madeleine Dean, che dopo la strage del 2012 in cui morirono venti bambini in una scuola elementare ha fondato un’associazione per il controllo delle armi. In campagna elettorale sono diventate amiche. Si vedevano quasi ogni giorno per bere una margarita e incoraggiarsi a vicenda. Sostengono infatti la «Shine Theory», una corrente di pensiero diffusa in rete da Ann Friedman, blogger del Missouri, e Aminatou Sow, originaria della Guinea. La teoria sostiene che le donne in carriera, anziché ostacolarsi, dovrebbero aiutarsi, riflettendo le proprie energie e ambizioni l’una nell’altra, come in uno specchio.
Nel 2016 la Pennsylvania non aveva mandato a Washington neppure una donna. Le Fab Four sono state elette tutte e quattro.
La campagna è stata segnata dall’odiosa strage nella sinagoga di Pittsburgh, 300 miglia a Ovest da qui: quasi una città fantasma, passata dai 750 mila abitanti dell’era industriale ai 250 mila di oggi. Trump è venuto a porgere le condoglianze ai familiari delle undici vittime, accompagnato da Melania. Qualcuno gli ha urlato contro; ma è davvero difficile accusare di antisemitismo il presidente che ha spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme, e ha scelto tra i consiglieri più stretti Gary Cohn, ex capo di Goldman Sachs, e il genero Jared Kushner (la figlia prediletta Ivanka si è convertita all’ebraismo per sposarlo). Certo, il clima di contrapposizione frontale rischia di esasperare la violenza. Ma non è odio che si respira nelle strade di Philadelphia; semmai, rassegnazione.
Il boom economico americano qui non è ancora arrivato.
Ovunque senzatetto, molti più che a New York, alla ricerca di tregua dal primo freddo. In cima alla scalinata su cui si allenava Rocky sorge il meraviglioso museo d’arte, che ospita una Madonna del Botticelli di commovente bellezza. Ma a pochi chilometri, nel sottopassaggio della Kensington Avenue, c’è il «Walmart dell’eroina», come il New York Times ha definito il più grande mercato della droga della costa orientale. Il tassista ti porta malvolentieri e aspetta con il motore acceso. Ragazzi gettati contro il muro, occhi persi nel vuoto, passanti che parlano da soli, genitori che sollevano i cappucci delle felpe alla ricerca del figlio, manifesti con fotografie di persone scomparse. Manhattan è a un’ora e dieci minuti di treno.
No liberal Nei distretti operai il partito si è affidato a candidati centristi, per non dire di destra