Nel paese dove ci vuole naso
S. Giovanni d’asso (Siena) ha rianimato l’economia con i tartufi e con la fantasia
Tuber magnatum e rosso Brunello. Il poeta Mario Luzi non aveva completamente ragione quando, a proposito delle Crete, le descrisse come «una terra arida, che rompe sotto Siena il suo mareggiare morto e incresta in lontananza». Da Montalcino, che si trova al limitare di questo paesaggio
secco e crepuscolare, Arezzo a San Siena Giovanni d’asso, infatti, quello che milioni di anni fa era un antico e ondulato km 20 fondale marino regala doni prelibati come, appunto, il tartufo bianco e il vino doc. Se il paese, che sorge attorno alla sua fortezza a lungo contesa dalle Repubbliche di Siena e Firenze, è tutto un anfiteatro di aziende vinicole (sono addirittura 208), la sua frazione San Giovanni d’asso, tra il Deserto di Accona e la Val d’orcia, raccolto ai piedi del suo Castello medioevale e cinto dal torrente Asso, ha scoperto ormai da mezzo secolo di essere, grazie ai suoi selvatici fondovalli in tufo e argilla, l’eldorado di questo oro della gastronomia contemporanea.
Al punto che, proprio all’interno dell’antico maniero è stato allestito un Museo del Tartufo dove Sabrina Farfarini svela, grazie ai pannelli interattivi, tutti i segreti per scovare e soprattutto cucinare questo fungo appartenente al genere delle Tuberacee. Un fungo così prezioso — Vania Uliveri, unica donna nominata Cavaliere del Tartufo, che dall’umbria viene qui ogni settimana a comprarli e, soprattutto, a rivenderli in tutto il mondo, sostiene che «si possono pagare anche 50 mila euro e il peso può arrivare a 80 kg» — che in questo e nel prossimo weekend viene celebrato con una Festa, Mostra e Mercato capaci di attirare migliaia di visitatori da tutta la Toscana. Molti dei quali giungeranno qui da Siena e Grosseto a bordo del Treno Natura trainato da una locomotiva a vapore.
Arrivando in un giorno qualsiasi, da settembre a fine gennaio, invece, ci si ritrova circondati da cani lagotti e tartufai con tanto di bastone, come Marco Lorenzetti, che nei loro poderi, facendosi guidare appunto dai loro fedeli cercatori dal pelo ricciuto, vanno alla ricerca di questi tuberi scavando col vanghino laddove li porta il naso dell’animale. «Il tartufo è il prodotto più biologico che esista perché dove c’è un agente chimico o sostanza inquinante non spunta. Quanti se ne trovano qui all’anno? Forse diecimila. Una stima è impossibile. Di sicuro la neonata Cooperativa cerca di inserirne la quantità più alta possibile in prodotti come il paté, le creme e i carpacci dai quali dipende l’economia del paese».
Fiamma e Lea, i suoi due lagotti, sembrano allegri mentre raspano nel sotto bosco, così come i cani di Giampiero Magri, che cerca tartufi «per pura passione e per gioco, anche se da qualche anno la richiesta, e quindi anche il guadagno, sono aumentati». Che sia diventato un business lo si fiuta sedendosi ai tavoli dell’osteria delle Crete, nella via centrale del borgo, dove Massimiliano Busetto serve pici e ribollita buoni da impazzire: «Se si guarda intorno e, soprattutto, tende le orecchie, vedrà e ascolterà tante trattative di compravendita concludersi a tavola. Però il denaro non ha cambiato il carattere gentile delle persone».
Fa capolino anche un pellegrino che ha deviato dalla Via Francigena e non crede ai propri occhi quando gli viene offerto un crostino spalmato di tuber magnatum. Anche Sheppard Craige, giramondo, figlio di agricoltori della Virginia, giunse qui per caso e donò a San Giovanni d’asso il filosofico giardino chiamato Bosco della Ragnaia. Forse Luzi, anche inconsciamente, quando chiosò che «inganno o verità, miraggio o evidenza, insidia a lungo la mente, una rottura di dilemma» si riferiva proprio ai tartufi.