Corriere della Sera

I Gershwin e l’america che voleva solo ballare

- Di Francesco Maria Colombo

Una volta chiesi al vecchio Mario Bortolotto, il più raffinato scrittore italiano di cose musicali, quale fosse la musica più bella del ‘900. Mi guardò con l’occhio da alligatore (mi aspettavo il Wozzeck) e sibilò: «Che domanda stupida! Le canzoni di Gershwin, naturalmen­te!». Aveva ragione? Certo che sì. Nell’ottocento la semplicità, la capacità di parlare a tutti, la profondità dell’emozione, la brevità della forma, il dono di stagliarsi nella memoria da subito e per sempre, si sono tutti riuniti in un solo miracolo, i Lieder di Schubert. Nel ‘900 lo stesso miracolo accade con i Songs di Gershwin. A tutta prima sembrano elementari, con quella generosità melodica che ne ha garantito il successo; in realtà sono molto di più, non solo sintesi di una civiltà ma elemento capace di forgiare quella civiltà, anticipand­ola di un passo (di danza, of course). Ascoltando Lady, Be Good!, il primo trionfo della coppia George &

Ira Gershwin (1924), abbiamo lo specchio dell’america dove si ballava il Charleston negli Yacht Club, dove la middle class aveva nomi come Susie o Dick (il problema era non essere sfrattati di casa) e dove la riccona di Rhode Island non poteva chiamarsi che Josephine Vanderwate­r (il problema era se sfamare i dalmata con beluga o sevruga). Ma soprattutt­o gli hit dei Gershwin (tradotti in scena da un altro duo di fratelli leggendari, Fred e Adele Astaire) dettavano il carattere di quell’america anziché assorbirlo: soprattutt­o grazie a una propulsion­e ritmica e a un’incisività della sillabazio­ne che lasciano tuttora sbalorditi. Gli americani la pensavano come Giorgetta nel Tabarro, «Io capisco una musica sola: quella che fa ballare». Loro non ne avevano coscienza ma i Gershwin sì, e li guidavano al ballo.

La sfida delle nove sinfonie in un giorno? Nessun problema, mi alleno ogni settimana tra Europa e Stati Uniti

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Fratelli Gli Astaire in «Lady, Be Good!», in scena dal 3 al 9/2

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