Da Zingaretti a Di Battista, chi temeva il voto sorride
ROMA «Scusa ma questo chi ti ha suggerito di chiedermelo? Forse i miei avversari al congresso, che non vedono l’ora di liberarsi della mia candidatura?». Per gli ultimi trenta interminabili giorni, da quando è partito il conto alla rovescia finale verso la sentenza del processo che vedeva imputata Virginia Raggi, Nicola Zingaretti ha dovuto resistere dietro le quinte a un pressing invisibile a occhio nudo, eppure asfissiante. A tutti gli interlocutori che gli chiedevano di una sua possibile discesa in campo in caso di elezioni anticipate a Roma, il governatore rispondeva con un sorriso caustico. «Quelli non vedono l’ora che accada…». Ecco, da ieri per Zingaretti è finito questo tormento. Con l’assoluzione della Raggi, tutto rimane come prima. Il tentativo che tanti nel Pd avevano già attribuito alle intenzioni segrete di Matteo Renzi e dei renziani, e cioè premere affinché il governatore del Lazio si ritirasse dal congresso del Pd in cambio del sostegno compatto a una sua candidatura per il Campidoglio, non comincia nemmeno. Il partito di quelli che ieri hanno accompagnato la lettura della sentenza della Raggi con un sospiro di sollievo va oltre Zingaretti. È trasversale, molto trasversale. Anche Alessandro Di Battista, a sentire il termometro dei Cinque Stelle ortodossi della Capitale, era terrorizzato dalle eventuali dimissioni della sindaca. Il piano di un viaggio di solo ritorno dal Centroamerica alla politica nazionale, per il leader dell’ala movimentista dei pentastellati, si sarebbe complicato a causa dei tanti che gli avrebbero chiesto di impegnarsi in prima persona su Roma. Forse sarebbe riuscito a resistere a queste sirene, forse no. Di certo, candidandosi a sindaco per il dopo-raggi, anche Di Battista avrebbe consumato quel secondo mandato che per i Cinque Stelle rappresenta il massimo dell’impegno istituzionale possibile. Con tanti saluti tanto al Parlamento, quanto a Palazzo Chigi. Per cercare quelli che dal minuto successivo alla lettura della sentenza soffrono, e tanto, basta bussare in casa della Lega. Matteo Salvini aveva pronto un piano per aggiungere il Campidoglio ai tanti successi degli ultimi mesi. «Se a Roma si vota, ci potrebbe essere un candidato nostro», aveva spiegato ai leghisti del Lazio un mese fa a Latina. La visita al quartiere San Lorenzo per rendere omaggio alla memoria della giovane Desirée Mariottini era stata letta come il primo tassello di una lunga campagna elettorale «legge e ordine» in cui il leader leghista avrebbe fatto di tutto per imporre al centrodestra una candidatura «verde». Probabilmente quella del ministro Giulia Bongiorno. Ma quella campagna elettorale non inizierà. Non ora, non qui.