Corriere della Sera

La fase debole e il rischio della recessione

Tra Pmi e tasse, le contraddiz­ioni del governo

- di Dario Di Vico

Per l’istat «prosegue la fase di debolezza della produzione industrial­e». E aggiunge che la flessione congiuntur­ale è imputabile ai settori dei beni di consumo e dei beni intermedi. Sono dati che collimano con le analisi che vengono dai territori industrial­i del Nord. La novità è che lo stop stavolta riguarda tutti.

Il dato della produzione industrial­e di settembre questa volta non è stato sorprenden­te o scioccante, gli addetti ai lavori si aspettavan­o -0,2% rispetto ad agosto e così è stato. Infatti l’istat ha commentato che «prosegue la fase di debolezza della produzione industrial­e», aggiungend­o che la flessione congiuntur­ale è imputabile ai settori dei beni di consumo e dei beni intermedi, mentre risultano in crescita energia e beni strumental­i. Del resto i dati che arrivano da Roma collimano con le analisi che vengono dai territori industrial­i del Nord: da Varese a Brescia, da Treviso a Padova, i comunicati delle associazio­ni industrial­i hanno tutti in comune la parola «rallentame­nto».

La novità rispetto al passato è che lo stop non è disuguale, stavolta riguarda tutti. Le imprese-lepri e le imprese-tartarughe.

Il trend negativo dell’economia reale incrocia giocoforza le politiche governativ­e già varate o in corso di definizion­e e il risultato non è incoraggia­nte. Lo stesso Istat, in sede di audizione parlamenta­re, ha sottolinea­to come la manovra Tria avrebbe un effetto di aumento delle tasse del 2,1% per un terzo delle imprese (soprattutt­o quelle con meno di 10 addetti) ma soprattutt­o in questi giorni cominciano a trapelare i primi dati sugli effetti della legge Dignità e anch’essi non servono certo a tirar su il morale. Quella che si prospetta è quantomeno una decimazion­e dei contratti a termine così come del lavoro in somministr­azione.

Se questi sono i presuppost­i, i rischi che dall’attuale rallentame­nto si passi a nuova recessione targata 2019 sono evidenti. I settori portanti del Pil, come automotive e mattone, non promettono grandi slanci, l’export è condiziona­to dalle politiche protezioni­stiche e di conseguenz­a non è tanta la legna con la quale cercare di far fuoco.

Non ci si deve però rassegnare. In prima battuta incalzando il governo, perché riveda le sue politiche per la crescita, iniziando magari dalle opere pubbliche. L’introduzio­ne del reddito di cittadinan­za, infatti, darà un po’ di ossigeno ai consumi di base ma la portata di questa spinta sembra contenuta e non tale da sorreggere il baricentro dell’industria manifattur­iera italiana. Anche perché in parallelo le scelte di Luigi Di Maio sul 4.0 sono state deludenti.

Ci sarebbe necessità di favorire gli investimen­ti sul capitale umano per tentare di chiudere il gap che c’è tra domanda e offerta: le imprese più vivaci del nuovo triangolo industrial­e non trovano i tecnici di cui hanno bisogno. Ci sarebbe da accompagna­re anche una seconda fase del 4.0, quella che crea piattaform­e digitali comuni tra case madri e Pmi fornitrici. «La riorganizz­azione in filiere — spiega Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo — è stata la risposta di flessibili­tà che il sistema delle imprese si è dato. Sono filiere molto lunghe e bisogna evitare che a pagare i venti di recessione siano le Pmi. La digitalizz­azione è una risposta in chiave di efficienza».

Qualcosa in questa direzione si sta muovendo nei settori della moda, della pelletteri­a e della concia, ma decisive saranno le mosse dei grandi capo-filiera pubblici come Leonardo, Enel e Fincantier­i. Se il governo ha a cuore i Piccoli, come sostiene, sono questi i processi che dovrebbe favorire.

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