Dubai, il design non è un miraggio
Un museo di arte contemporanea e la cittadella creativa nel deserto Per «tastare» il dialogo Est-ovest
L’ impatto è il tipico paesaggio di Dubai: grattacieli tutti diversi intorno e gru al lavoro per costruirne altri strappati al deserto, poco più in là qualche casa bassa senza uno stile. Con il Burj Khalifa in lontananza, sul canale si staglia il nuovissimo (l’inaugurazione domenica scorsa) Jameel Arts Centre, museo di arte contemporanea indipendente su progetto dei londinesi Serie Architects: spazi per mostre e installazioni, oltre a una biblioteca a tema con centro ricerche aperti al pubblico, unico esempio del genere negli Emirati Arabi. Bordato verso l’acqua da un colonnato e punteggiato da grandi finestrature, il museo si presenta come un’architettura «aperta», con lo stacco dato qua e là da sette «horti conclusi» evocativi del deserto. Un presente e un futuro di inclusione e proiezione verso il nuovo, il melting-pot Oriente e Occidente, lo sguardo alle proprie radici: il Jameel Art Centre potrebbe essere la metafora della nuova Dubai creativa, alla ricerca spasmodica di una sua identità attraverso il design, l’architettura, l’arte.
Quella che si conclude oggi, lo si coglie nell’aria, è una settimana cruciale: è la Dubai Design Week, circa 230 eventi tra esposizioni, installazioni, workshop, concorsi, talk che si concentrano nel Dubai Design District, detto anche d3, una sorta di modernissima cittadella della creatività. In questi edifici dalle avveniristiche facciate di vetro sono racchiusi showroom di arredi, gallerie, studi di architetti e interior. Ma nei 6 giorni di fiera le hall di ingresso si popolano di mostre creative, i percorsi esterni ospitano le installazioni, i negozi (di oggetti, ma anche di moda «di ricerca», caffè e ristoranti) si animano di addetti ai lavori e gente comune: passeggiare, curiosare, soffermarsi diventa un modo per capire dove sta andando, qui, il design.
Lo conferma William Knight, londinese, da un anno direttore della Dubai Design Week dopo essere stato a capo del 100% Design: «Il d3 è un hub delle creatività, distretto di business ma soprattutto luogo per far toccare con mano il design, renderlo accessibile. Trasformarlo in un’esperienza. Proprio come il vostro fuori Salone». Girando tra installazioni, emerge ovunque il desiderio di recuperare in chiave contemporanea le proprie radici. Per esempio il progetto Abwab («porta», in arabo) svela, in 5 casette ecosostenibili fatte di ramoscelli e carta di giornale riciclata, la rilettura della loro terra da parte dei giovani designer del Middle-east: oggetti, ma anche video, grafiche, suoni immergono il visitatore nei quartieri di Ammam o nel mondo dei cercatori di perle del golfo Persico. Oppure mostrano, attraverso piccoli arredi, come siano ancora attuali le tecniche di lavorazione del gesso e della sabbia tipiche del Kuwait. Sullo sfondo a contrasto, gli avveniristici edifici del d3, dove il percorso prosegue con esposizioni a tema: fianco a fianco convivono i progetti come From Rak to Drak (designer arabi chiamati a creare osservando la quotidianità di alcuni negozi della comunità di Ras al Khor) e Proto Pieces, sedie e tavoli ideati dagli studenti arabi dell’università americana di Shariah seguendo tutte le fasi del progetto industriale, dal disegno al prodotto finito: «Ciascuno di noi ha scelto una forma e poi ha messo a punto la tecnica per realizzarla e creato il prototipo», spiega Bishoy Rami Abdelnoor, designer del tavolino sinuoso Wafer Table. Tra artigianato e progetto «all’occidentale».
Fuori dal d3, a poca distanza, si staglia la tensostruttura che ospita il Downtown Design, la fiera dei marchi occidentali affiancata da Downtown Editions, piccoli produttori locali di arredi. Tra gli stand, approcci contrastanti: se gli autoctoni cercano un proprio stile, le aziende europee sembrano voler interpretare il gusto locale. Una cosa è certa: Dubai è un crocevia di paesi e culture e il design non può (per ora) far altro che tradurre queste molteplicità.
L’ultima propaggine della Design Week si gioca a Sharjah, emirato confinante, alla prima Biennale di graphic design. Ambientata nella sede dismessa di una banca degli anni ’70, un’indagine parallela sulla forza comunicativa della grafica internazionale,
inclusa quella dei Paesi arabi. Affermazione, questa volta, di parità raggiunta tra le culture del design.
Il modello
«Non è solo business, vogliamo far vivere un’esperienza, come al Fuori Salone di Milano»