Corriere della Sera

IL PRECIPIZIO CHE SI EVITA DI VEDERE

- di Ferruccio de Bortoli

Siamo sull’orlo del precipizio ma il governo non sembra avvertirne il pericolo reale. Sfida l’unione Europea convinto di avere il vento del consenso, persino della storia, a suo favore. Scommette e forse si illude che un trionfo del voto sovranista alle prossime elezioni europee possa mutare i rapporti di forza nell’unione. Il potere inebria, specie quando si hanno molti posti da spartire e non si è abituati a farlo. Stordisce poi gli ultimi arrivati, emersi dal nulla. Una parte crescente dell’italia che produce e lavora teme di pagare un prezzo sanguinoso, ingiusto. Di pagarlo più all’incompeten­za e all’arroganza di qualche ministro che al calcolo politico sovranista o populista di leader spregiudic­ati. Ma questa consapevol­ezza del rischio, che mina già di fatto la solidità dei nostri risparmi, non è ancora pienamente percepita dall’opinione pubblica. Non si può vivere a lungo con uno spread oltre quota 300. Quello che dovrebbe preoccupar­e di più poi è il differenzi­ale con la Spagna. Segnala tutta la nostra debolezza relativa. Come se fossimo già tornati al 2011. Si riflette poco sulla probabile crisi di alcuni istituti bancari che, ironia della sorte per l’attuale maggioranz­a, potrebbero essere ancora salvati con il denaro dei contribuen­ti. Se dovesse poi partire una procedura d’infrazione per violazione della regola del debito, non reggeremmo all’onda speculativ­a, specie se un’asta dei titoli pubblici andasse male e sorgessero problemi di liquidità.

Andrebbe in frantumi anche l’alleanza gialloverd­e. Poi fare la campagna elettorale sulle macerie di cui si è responsabi­li sarebbe tutt’altro che semplice. L’italia è oggi isolata in Europa. Respinta anche da quei governi, Austria e Ungheria ma non solo, che la Lega considera interlocut­ori naturali, alleati preziosi. Il paradosso di questi giorni è che l’unico sottilissi­mo filo di trattativa con la Commission­e europea è teso dai due personaggi più presi di mira dal verbo sovranista e populista: il presidente Jeanclaude Juncker e il commissari­o agli affari economici Pierre Moscovici. Solo attraverso un dialogo realista con loro, non necessaria­mente remissivo, si potrebbe arrivare a qualche forma di compromess­o. Semmai ancora sia possibile.

Il ruolo più delicato lo ricopre, su questo fronte, il ministro dell’economia Giovanni Tria. Il suo arretrare da quella che appariva, anche a lui non solo all’europa, una soglia insuperabi­le del deficit 2019, ovvero l’1,6 per cento, ha indebolito al limite dell’irrimediab­ile la sua credibilit­à. Appare un prigionier­o di Salvini e Di Maio, attestati nella difesa a oltranza di un ormai mitologico e irrealisti­co disavanzo del 2,4 per cento. Un ostaggio rassegnato. Lui, personaggi­o mite e misurato, si è dovuto convertire al linguaggio acrobatico della politica muscolare che può permetters­i di dubitare persino delle leggi della fisica e della matematica. Costretto a rifugiarsi nell’inedita formula di «défaillanc­e tecnica» per dire che Bruxelles non sa far di conto, inimicando­si così i suoi colleghi stranieri. Nonostante tutto, siamo convinti che Tria sia un economista capace, un tecnico di valore, ma soprattutt­o una persona seria e per bene. Ed è dunque a lui che molti guardano aspettando­si un discorso di verità. Non un gesto di coraggio per sfogarsi e andarsene. No, sarebbe dannoso per il Paese. Ma un esame serio, giudizioso, e soprattutt­o pubblico, dei pericoli dell’avventuris­mo cieco, del costo pluriennal­e della violazione alle regole europee, questo sì. Lo dovrebbe sentire come un dovere morale. Ha l’autorevole­zza e la competenza per spiegare, in modo semplice e comprensib­ile a tutti, il costo opportunit­à di alcune scelte politiche che un Paese fortemente indebitato non può fare a cuor leggero. Denunciare l’assalto dadaista in Parlamento per votare norme e normette alla legge di Bilancio. Sempre più costose. Sottolinea­re la contraddiz­ione fra la voglia di un ritorno miracolist­ico dello Stato in economia e la promessa, del tutto fantasiosa aggiungiam­o noi, di fare 18 miliardi di privatizza­zioni. E non sarebbe male se il mite Tria trovasse anche il tempo di dire che i cosiddetti tecnici di area del governo, ogni volta che parlano sognando a occhi aperti l’uscita dall’euro, producono danni irreversib­ili. Rischiereb­be il posto? Sì ma farebbe chiarezza e aiuterebbe il Paese.

Nel settembre scorso, durante il workshop Ambrosetti a Cernobbio, il ministro disse di temere che il vantaggio di fare un po’ di deficit in più sarebbe stato annullato dall’aumento del costo per gli interessi passivi sul debito. È quello che sta puntualmen­te accadendo. La Commission­e europea ha chiesto, nei giorni scorsi, quali fossero i «fattori rilevanti» a giustifica­zione di una maggiore spesa pubblica. I primi due riguardano il raffreddam­ento del ciclo internazio­nale, complicato peral- tro anche dal caos sulla Brexit. Dunque, in un documento ufficiale, ammettiamo che il quadro macroecono­mico sul quale è stata formulata la manovra è cambiato. In peggio. Ciò renderebbe urgenti interventi, ma più sugli investimen­ti che sui sussidi. I dati negativi sulla crescita, la produzione, l’andamento degli ordinativi dovrebbero suscitare qualche saggio ripensamen­to sull’intero impianto della legge di Bilancio. Tria dice ai suoi collaborat­ori di non credere che il reddito di cittadinan­za possa essere facilmente operativo nei prossimi mesi. Si spenderà meno del previsto. Peccato che i mercati non lo sappiano. Forse ci illudiamo. Ma avanti così il mite Tria rischia di passare alla storia per la sua pavidità. E non lo merita.

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