Tensione sulle cariche, guerra fredda dentro FI E il leader interviene sui giovani «ribelli»
«Io sono nato berlusconiano, vivo berlusconiano e creperò pure da berlusconiano. Non è detto però che quest’ultima cosa avvenga dentro Forza Italia. Anzi...». Nel pomeriggio di giovedì 8 novembre Armando Cesaro, detto «Armandino» a dispetto della stazza imponente, capogruppo di FI nel consiglio regionale campano e figlio del parlamentare Gigino detto «’a Purpett», esce dal cancello di Arcore e si sfoga con le altre sei leve che rappresentano il gotha del movimento giovanile al Sud. Mancano quarantott’ore al congresso per scegliere il nuovo presidente dei giovani e quelle assise — le prime nella storia recente dei berlusconiani — si sono già trasformate in una polveriera. Il Mezzogiorno, Campania e Calabria in testa, è in rivolta contro il regolamento e minaccia di convocare una manifestazione a Napoli con alla testa Cesaro junior. «Possiamo far scendere in piazza quattromila di noi», fanno sapere i ribelli. E visto che dietro i «giovani» si muovono i «grandi», e che il pretesto ha tutta l’aria di essere la miccia di una possibile scissione, come dimostrerà la scelta dei forzisti campani (in testa Cesaro senior) di smarcarsi sul condono di Ischia, Berlusconi decide che è il caso di intervenire.
Invita a pranzo Cesaro junior e la delegazione dei «meridionali». La partita per il presidente dei giovani, con le regole del congresso che determinano il numero dei delegati sulla base della popolazione delle regioni, è chiusa. La scelta è ricaduta su Stefano Cavedagna, vicino ad Anna Maria Bernini. «Ma possiamo inserire la carica di vicepresidente o di segretario o di un’altra figura che rappresenti il Sud», propone Berlusconi. Non ce ne sarà bisogno, i «ribelli» si limiteranno a disertare le assise senza proteste eclatanti «e solo per rispetto a lei, presidente». Ma l’episodio è un po’ un simbolo dell’aria che si respira ormai tra gli azzurri.
La storia di un partito diviso in tre tronconi — l’area che dialoga con Salvini (a cui vengono ascritti Ghedini, Bernini e Ronzulli), l’area che rivendica più autonomia da Salvini (Gelmini, Carfagna ma è anche la posizione di Gianni Letta) e l’area di chi vuole andare oltre FI ma a braccetto con Salvini (Toti, molti piemontesi, i bergamaschi Sorte e Benigni, il sindaco di Ascoli Guido Castelli) — sembra quasi superata dalla distinzione Nord-sud. Sotto Roma, l’esercito di parlamentari e consiglieri regionali è sul piede di guerra. Chiedono un riequilibrio delle cariche interne e a volte basta un niente ad accendere la guerriglia. Sotto la cenere c’è un vulcano sul punto di esplodere. Qualche settimana fa è bastata la presenza di Mara Carfagna all’inaugurazione del comitato provinciale di Reggio Calabria per alimentare le voci che vorrebbero i calabresi guidati da Jole Santelli, oltre ai campani, alla testa di un gruppo che sogna di vedere la vicepresidente della Camera al coordinamento nazionale del partito. Nessuno però fiata, pubblicamente. Come se quello che si dice dentro
FI possa essere usato contro chi lo dice. «Vi prego, basta», si lamentava l’altro giorno Mariastella Gelmini. «Non mettetemi in contrapposizione con la Ronzulli, non scrivete che sono contro Salvini. Sto lottando per salvare FI. Non l’avete capito che se alle Europee andiamo sotto il 10 finisce tutto?».
Nelle riservate proiezioni in seggi al Parlamento europeo della media dei sondaggi, in corrispondenza delle circoscrizioni Nord Ovest e Nord Est — dove nel 2014 vennero eletti cinque forzisti — oggi c’è il numero zero. Tra zero e uno i possibili seggi dell’italia centrale. Tra uno e due quelli del Sud. «Le liti? Tutte fandonie. Non c’è un problema di linea e neanche di sondaggi. Tecnè ci dà all’11,3, andremo meglio che alle Politiche», sostiene Antonio Tajani.
La guerra dentro FI continua. Villa San Martino, ad Arcore, è diventata il luogo di chi cerca la distensione con Salvini. Villa Maria, a Rogoredo, dove abita Francesca Pascale, viene raccontata come il quartier generale degli autonomisti. Berlusconi lavora ad Arcore ma va a dormire a Rogoredo. Ennesima metafora, questa, di tutti i nodi non ancora sciolti.
Mediazione del capo Gli eletti nel Mezzogiorno vogliono contare di più E c’è chi minaccia di uscire dal partito