Corriere della Sera

Hina senza pace anche da morta Il fratello stacca la foto dalla lapide

Brescia, la 20enne pachistana uccisa dal papà. «Troppo spogliata, ne metto un’altra»

- Mara Rodella

Non riuscì a trovare pace in vita, combattuta tra la sua voglia di libertà e le pressioni della famiglia, che non la voleva «occidental­e». Ma per Hina Saleem non c’è requie nemmeno ora che è morta ormai da dodici anni.

Ne aveva 20 quando nel 2006 il padre la uccise a coltellate prima di seppellirl­a con l’aiuto di alcuni parenti nel giardino di casa, con il capo rivolto verso la Mecca. Hina ora riposa nel cimitero Vantiniano, a Brescia. La scorsa primavera un benefattor­e (anonimo) decise che anche lei doveva avere una lapide, non solo erbacce. E la fece realizzare. Ci sono una stella, la luna, e una dedica: «La tua famiglia». Ma c’era anche una foto di Hina: sorridente, con la canottiera fucsia e i riccioli neri sciolti sulle spalle.

Quell’immagine non c’è più. L’ha «strappata» il fratello maggiore Suleman, 26 anni: «Non andava bene, non era una foto rispettosa» dice, precisando di aver agito da solo «dopo averne parlato con la mia famiglia, la comunità musulmana non c’entra nulla». L’islam vieta i ritratti dei defunti. «Ma non importa, io non la penso così» ribatte Suleman che ancora ringrazia il benefattor­e del suo gesto («noi non potevamo permetterc­i una lapide: a casa siamo in quindici tra parenti e bambini e lavoriamo solo io e mia madre») ma non cede di un passo: «Sceglierò un’immagine più decorosa per ricordare mia sorella, una in cui appare più coperta». Promette che lo farà: «Vede, è un po’ come quando voi andate in chiesa, mica lo fate in ciabatte e pantalonci­ni. Ci sono entrato anch’io in una chiesa, sa? Facevo il gruppo estivo, da ragazzino. E ricordo bene che il parroco ci diceva di coprirci. Il princi- pio è lo stesso: il ritratto di Hina non era rispettoso».

Quando la sorella fu massacrata Suleman era in Pakistan con la madre Bushra. Nella loro casa in Valtrompia era rimasto solo il padre Mohammed, che chiamò a raccolta uno zio materno di Hina (condannato solo per il concorso in occultamen­to del corpo) e i suoi generi per procedere con «l’esecuzione» di una figlia troppo ribelle.

Lo scrisse anche la Cassazione, confermand­o la condanna a 30 anni per Mohammed: Hina non fu uccisa per «motivi religiosi e culturali», ma per «un patologico e distorto rapporto di possesso parentale». Viveva all’occidental­e: conviveva con un fidanzato bresciano, indossava i jeans, le piaceva bere qualcosa ogni tanto o accendersi una sigaretta. Voleva soltanto vivere a modo suo, sperimenta­ndo da sola per trovare la strada giusta. Una strada che si è irrimediab­ilmente interrotta proprio nella casa di famiglia, dove fu sepolta la prima volta. Ma ancora Hina non trova pace.

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(Lapresse) SfregioLa lapide di Hina Saleem senza la foto della ragazza uccisa

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