MARIO SEGNI
Fanfani era come Renzi: attaccava tutto e tutti Occhetto propose un’alleanza ma come potevo, con la mia storia, essere il capo dei comunisti? tanto...».
La salvò Occhetto e l’odio della sinistra per Craxi. Vinceste il referendum, però non seppe sfruttare l’occasione. Dove sbagliò?
«Qui arrivò la sconfitta. Non cerco giustificazioni, ma il mio passato rendeva più difficile muoversi. Occhetto proponeva l’alleanza ma, con la mia storia, potevo essere il capo dei comunisti? Dall’altro lato, come mio padre, ero anticomunista, ma allo stesso modo antifascista: potevo accordarmi con Fini quando non aveva ancora rinnegato le sue origini? Berlusconi mi incontrò un paio di volte e fece circolare la voce che avevo rifiutato di guidare il nuovo partito. Quando mai? Compresi fin dal primo momento che pensava solo a se stesso».
Torniamo a suo padre. Come divenne presidente della Repubblica?
«Facevo lunghe camminate con lui e mi raccontava degli scontri durissimi con Amintore Fanfani, la sua “bestia nera”. Fanfani era come Matteo Renzi, attaccava tutto e tutti. Papà mi portò allo scontro più sanguinoso a cui abbia mai assistito: il congresso della Dc di Firenze del ’59. Alle 4 di notte bussarono alla porta. Erano Emilio Colombo e Mariano Rumor: “Abbiamo perso, non ci eravamo accorti che Fanfani ha stretto un accordo con la sinistra interna”. Alle 6 papà cercò di convincere Scelba a un accordo. Rifiutò. Alle 8 contattò Andreotti che convocò i suoi: “Siamo chiamati a un grande sacrificio; senza chiedere niente dobbiamo votare Segni per evitare che il partito finisca nelle mani della sinistra”. Applaudirono e Andreotti se ne andò. Poi, mi raccontò Evangelisti, scoppiò il caos: “Fra’, e a noi che ce tocca?”. Comunque, il blitz riuscì e Moro andò alla segreteria. Ma il rapporto si ruppe anche con lui quando decise di accelerare i tempi dell’ingresso socialista nel governo. Per garantirsi presso gli industriali, gli agrari e la Banca d’italia, Moro decise di candidare mio padre alla presidenza della Repubblica».
Curiosi rovesciamenti di campo...
«Spesso i presidenti della Repubblica sono eletti per quelli che sono ritenuti i loro difetti, non per i loro pregi. In quel caso c’era una logica: bisognava riequilibrare l’apertura a sinistra. Fanfani e i franchi tiratori però erano in agguato e, alla sesta votazione, mio padre ottenne qualche voto in meno. Scoraggiato, Moro si presentò a casa nostra, in Via Sallustiana, chiedendo a mio padre di ritirarsi. Lui fece una delle sue sfuriate. Il giorno dopo, uscii di casa per fare una passeggiata: sentivo troppo la tensione. Davanti a un bar vidi la gente incollata alla televisione che applaudiva. Il barista mi riconobbe: “Hanno eletto suo padre”. Poco prima, dalla segreteria Chi è
● Mariotto Segni, docente di Diritto civile all’università di Sassari dal 1975 al 2011, è stato eletto alla Camera dal 1976 al 1994. Dopo aver abbandonato la Dc nella fase calda di Tangentopoli, nel 1993 ha fondato il nuovo movimento politico «Patto Segni»
● Inventore del referendum come arma di vera riforma legislativa, promosse i referendum elettorali sull’introduzione del maggioritario (1991) e quello sull’uninominale (1993) che hanno rivoluzionato il sistema elettorale italiano avevano mandato il giovane Arnaldo Forlani da papà con un rametto d’ulivo. Il Quirinale si dimostrò subito un posto orribile per viverci, mezzo museo e mezza caserma. Non era un ambiente confortevole e mio padre ne risentì molto. Inoltre, era un uomo d’azione, inadatto a fare l’arbitro. Io mi ero laureato e trasferito a Padova, dove facevo l’assistente universitario. Così, appena poteva, papà scappava a Sassari. Poi, il tragico epilogo, nell’estate del 1964. Mentre stavo andando in montagna, ci avvisarono che aveva avuto un ictus. A dicembre si dimise. Visse ancora fino al ’72, lucidissimo ma leso per metà del suo corpo e incapace di parlare».
Tre anni dopo, l’accusa infamante da parte del settimanale «L’espresso». Se ne accorse?
«Certo. Riusciva a leggere. Per alcune settimane lo ricordo disperato, perché non poteva difendersi. Dissero che aveva complottato con De Lorenzo e predisposto un piano per il golpe, il cosiddetto “Piano Solo”. In realtà fu una montatura giornalistica. Saragat, presidente della Repubblica, respinse “con disgusto questa vergognosa speculazione”. Nenni scrisse nel diario: “Se dovesse dimettersi, come i medici lasciano intendere, sarebbe un guaio”».
Perché ancora oggi in Rete e in molti testi giornalistici si continua a parlare di golpe?
«Il successo della tesi golpista si deve alla forza mediatica e culturale del Pci, alla sua capacità di mistificare la storia e coprire la verità. Il ’64 fu un tassello importante del racconto di una Dc golpista, pezzo forte della propaganda comunista. Erano i tempi del Muro di Berlino, dei missili a Cuba e mio padre si preoccupava per l’ordine pubblico, anche perché il primo anno del centro-sinistra aveva creato tensioni. Convocò, ufficialmente, De Lorenzo, per sapere da lui qual era la situazione nel Paese. De Lorenzo non fece altro che aggiornare i piani, come avveniva periodicamente, nel caso vi fossero stati eventi che avrebbero potuto mettere in pericolo l’integrità della Repubblica. La riprova che non vi furono tentativi di golpe è dimostrata dalla nomina, due anni dopo, di De Lorenzo a capo di Stato Maggiore dell’esercito. Saragat, Moro e Nenni avrebbero promosso l’uomo che tramò contro di loro?».
Scommetto che oggi non sarebbe più tanto convinto nel proporre una repubblica presidenziale in Italia. Sbaglio?
«Perché no? Non è meglio una guida unica a questa carrozza impazzita con due cavalli che tirano in direzioni opposte? Forse verrebbe eletto Matteo Salvini e si comincerebbe seriamente a costruire un’alternativa per le elezioni successive».