La nostra vulnerabilità alle «fake news» ha radici nell’infanzia
Esistono da che mondo è mondo, non sono nate con Internet. Ma il web le diffonde a una velocità mai vista prima: le «bufale», o fake news, come si chiamano adesso, diventano virali in un attimo e possono contagiare decine di migliaia di persone in un batter d’occhio, se a riportarle sono i profili social giusti. Perché così tanti ci cascano? Un po’ a sorpresa potrebbe essere colpa dei giochi dell’infanzia, il «facciamo che io ero...» che tanto piace da piccoli.
Il gioco di finzione, secondo un’ipotesi discussa durante l’ultimo congresso dell’american Psychological Association, potrebbe avere questo effetto collaterale inatteso ed essere alla base della tendenza a credere alle bufale. Secondo tutti gli esperti il meccanismo che ci porta ad accettare come reali notizie poco credibili è il cosiddetto «pregiudizio di conferma», un fenomeno che porta a prendere per oro colato tutto quello che va d’accordo con quel che già sappiamo: dal punto di vista cognitivo ed emotivo è infatti meno faticoso accettare informazioni che avallano le nostre credenze, giuste o sbagliate che siano, e «dimenticare» quelle contrarie. Per capire dove si fabbricano i falsi miti che non abbandoniamo, quindi, bisogna risalire indietro fin nell’infanzia secondo quanto sostiene Eve Whitmore, psicologa dello sviluppo della Western Reserve Psychological Associates in Ohio, che ha presentato la sua ipotesi al congresso.
«Molti pregiudizi e false credenze si formano da piccoli, quando impariamo a distinguere tra realtà e fantasia e i genitori giustamente favoriscono il gioco di finzione: inscenare situazioni reali o meno aiuta i bambini a recepire, assimilare e far proprie le norme sociali di riferimento e in più facilita lo sviluppo dell’empatia. C’è però il rovescio della medaglia: i bimbi, diventando abili a “far finta di”, imparano anche l’auto-inganno e a illudere un po’ se stessi. Soprattutto, imparano che in alcuni casi si può fingere che ciò che è falso sia vero e viceversa».
Nell’adolescenza poi è naturale che si sviluppi il senso critico e si metta in discussione ciò che è proposto dagli adulti, siano essi insegnanti o genitori; alcuni ragazzi, però, non riescono ad andare contro le credenze famigliari, perché non tollerano i conflitti che si creerebbero.
Così, se in casa mamma e papà danno credito a qualche leggenda metropolitana, ecco che il figlio (già «allenato» fin da piccolo a credere che qualcosa di irreale potrebbe non esserlo) può seguire la scia e fidarsi di idee bislacche.
Credere alle bufale insomma è in qualche modo «ereditario»: secondo Whitmore è questo il meccanismo più probabile e lo sarebbe meno l’opposto, ovvero dar retta alle bufale per ribellarsi a una famiglia che non ci crede. «All’inizio il processo può essere consapevole, ma con gli anni diventa inconscio. È una modalità di pensiero che sviluppiamo da giovanissimi per ridurre l’ansia che deriva dalle incertezze del mondo: ci trinceriamo dietro certezze, anche infondate, pur di non doverci confrontare con la complessità. Così si arriva all’età adulta senza aver mai messo in dubbio false convinzioni maturate da piccoli, senza aver esercitato lo spirito critico: quelle credenze vengono accettate, influenzano il pensiero successivo, gli fanno da cornice», sostiene Whitmore, secondo cui il web non fa che rendere ancora più semplice questo meccanismo: «Oggi ci arrivano messaggi innumerevoli e contraddittori da un’enorme varietà di canali di informazione. Per molti è più facile accettare una falsificazione semplice rispetto alla realtà, di solito più complicata».
Anche perché poi entrano in gioco le emozioni, come ha spiegato il Nobel per l’economia dello scorso anno, Richard Thaler, secondo cui l’uomo si «beve» le frottole perché è guidato dalle emozioni ancor più che dal cervello: non siamo macchine pensanti che si emozionano, ma esseri emotivi che pensano.
Così, se una notizia falsa parla alla «pancia» si può star sicuri che troverà abbondante credito al punto da farci decidere deliberatamente di non dare ascolto ai fatti comprovati dalla scienza.
Lo ha dimostrato uno studio pubblicato di recente da Ernest O’boyle (dell’università dell’indiana) sul Journal of Management, secondo cui tanti si rifiutano di credere alle prove che la ricerca mette loro sotto il naso a causa della sempre minore credibilità che hanno gli scienziati agli occhi dell’opinione pubblica. In un mondo in cui la competenza è guardata quasi con sospetto «i meccanismi rigorosi della ricerca scientifica alla maggioranza appaiono strani, complicati, utili solo a far perdere tempo».
Capire da dove e come nascono le fake news allora significa trovare gli anticorpi per provare a ridurre il bacino di chi ci crede. Per esempio, sfruttando gli stessi canali ato alle domande dei lettori all’indirizzo
forumcorriere .corriere.it/ psichiatria
Il meccanismo
Pur di non fare i conti con la complessità preferiamo accettare certezze infondate
Il ruolo delle emozioni Se un racconto falso parla alla «pancia» sicuramente troverà abbondante credito