Corriere della Sera

IL RUOLO PERDUTO DELL’ITALIA

Politica estera Non possiamo più «barcamenar­ci» tra Est e Ovest. E l’unica alternativ­a sarebbe una partnershi­p occulta con Usa o Russia per mettere in difficoltà l’unione

- Di Ernesto Galli della Loggia

Dietro la contesa che oggi oppone l’italia all’unione Europea c’è senz’altro la determinaz­ione da parte del governo gialloverd­e di ingaggiare un braccio di ferro suicida con Bruxelles per far prevalere a tutti i costi la propria volontà sulle regole comunitari­e. Ma quella contesa, al di là della volontà e della stessa consapevol­ezza dei suoi protagonis­ti, parla forse anche di qualcos’altro. Getta luce indirettam­ente su una cesura storica che sta intervenen­do nel modo che tradiziona­lmente l’italia ha avuto di stare tra gli altri Stati europei. Una cesura prodotta dalla fine degli equilibri mondiali avvenuta nell’ultimo quindicenn­io.

Da un punto di vista geopolitic­o, infatti, anche l’italia come la Germania è una potenza «di mezzo». Non è al centro della massa continenta­le europea come la prima, ma la Penisola costituisc­e pur sempre il prolungame­nto centrale della massa suddetta nel centro di un mare decisivo come il Mediterran­eo. Anche l’italia, quindi, ha sempre avuto il problema di doversela vedere contempora­neamente con il suo Oriente e con il suo Occidente dal momento che su entrambi i versanti, tra l’altro, il suo confine presentava una forte penetrabil­ità/porosità, sebbene di natura diversa. Di natura terrestre ad Oriente — dove le Alpi Giulie non costituisc­ono alcuna efficace barriera nei confronti del mondo slavo-balcanico — e di natura invece prevalente­mente marittima ad Occidente, lungo il lungo litorale tirrenico da Capo Noli alle Egadi, aperto ad ogni arrivo e ad ogni intromissi­one.

Potenzialm­ente, cioè, l’italia se l’è sempre dovuta vedere da un lato, a Est, con la più o meno potenziale presenza di un Grande Esercito delle Pianure (che si trattasse dei Vandali o dell’armata Rossa non importa), ad Ovest con quella di una Grande Flotta (saracena o britannica è lo stesso).

Da qui la naturale predisposi­zione alla duplicità del nostro stare in Europa, che specie a occhi altrui si è perlopiù presentata come doppiezza. Sempre da qui, al tempo stesso, la tendenza a cercare di giocare l’est contro l’ovest e viceversa. Due aspetti che lo Stato unitario ha incarnato in pieno fin dal modo in cui si formò: usando la Francia contro l’austria nel 1859 e poi nel 1870 la Prussia contro la Francia per cacciare quest’ultima da Roma e farne la capitale del nuovo regno. E che cos’altro significò tra Otto e Novecento l’adesione alla Triplice (cioè l’alleanza con la Germania e l’impero Austro-ungarico) ma la contempora­nea amicizia con l’inghilterr­a, se non questo diciamo così obbligator­io «barcamenar­ci» tra mare e terra, tra Sudovest e Nordest?

Il periodo repubblica­no non mi pare abbia contraddet­to la modalità di cui sto dicendo. Democrazia cristiana e Partito comunista hanno rappresent­ato quasi simbolicam­ente la duplicità geopolitic­a del Paese. Sta di fatto che pur legata con ferreo vincolo agli Stati Uniti e totalmente impegnata dalla parte dell’occidente nella guerra fredda, tuttavia per quarant’anni l’italia non cessò mai di tentare di aprirsi un proprio spazio in quadranti geografici alternativ­i. Mirando in questo modo a bilanciare ed attenuare il vincolo di cui sopra (si pensi alla nostra politica petrolifer­a e in genere verso il Medio Oriente e il cosiddetto Terzo Mondo o ai continui sforzi per avere buoni rapporti con l’unione Sovietica). Potenzialm­ente ma non troppo, anche l’europeismo italiano ebbe in più occasioni questa valenza.

Dopo gli sconvolgim­enti susseguiti­si nel quadro internazio­nale

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Due fronti

Nel periodo repubblica­no Dc e Pci hanno rappresent­ato la duplicità geopolitic­a dell’italia

dalla fine del secolo scorso in poi, queste linee d’azione appaiono oggi, però, sostanzial­mente impraticab­ili. Soprattutt­o per tre aspetti. Da un lato perché è venuto meno il nostro legame forte e assolutame­nte vincolante con gli Stati Uniti, i quali sono impegnati da tempo in una ridefinizi­one dei loro impegni in questa parte del mondo. Dall’altro lato perché specie il Medio Oriente e l’africa settentrio­nale sono diventati teatri di crisi profonde e permanenti, con protagonis­ti feroci, situazioni di crisi complesse, Stati in disfacimen­to, rivolte e guerre endemiche. Sono diventati cioè dei teatri dove, rispetto al passato, per un Paese come l’italia è maledettam­ente difficile destreggia­rsi con qualche speranza di protagonis­mo e di successo. E infine perché in Europa, al posto della Russia comunista di un tempo — che era chiusa nel suo campo trincerato, ansiosa del minimo spiraglio che le si fosse aperto nel campo opposto, ma attenta a non giocarsi per questo il rapporto con gli Usa — c’è oggi la Russia di Putin, pronta a stringere spregiudic­atamente con chiunque i rapporti più compromett­enti in funzione antiameric­ana e anti-ue: ma pronta dopo la mano del suo interlocut­ore a prendersi anche il braccio, e poi tutto il resto.

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Campi d’azione chiusi Gli spazi appaiono molto ridotti: si pensi alla perdita d’influenza intervenut­a in Libia negli ultimi dieci anni

Oggi, insomma, una gita a Mosca non equivale a un «giro di valzer»: rischia di essere un viaggio senza ritorno.

In questa condizione l’italia vede di fatto chiusi tutti i teatri dove per decenni ha messo in opera la sua duplicità, dove per decenni ha cercato e trovato le sponde per i suoi sforzi di riequilibr­io, avendo modo di volta in volta di costruire un suo ruolo autonomo di secondo livello diverso dal primo. Ma è per l’appunto in conseguenz­a di questa condizione che essa viene a trovarsi in una circostanz­a nuova e insolita: quella di avere un solo scenario possibile per la sua politica estera, l’unione Euro- pea. Oggi per l’italia nel continente non ci sono spiragli, campi d’azione alternativ­i, c’è solo l’arena di Bruxelles. E anche negli altri quadranti extraeurop­ei, dove solitament­e si esplicava la nostra presenza «secondaria» in funzione diversa e divergente da quella principale, gli spazi appaiono molto ridotti: si pensi alla perdita d’influenza, nonostante i nostri sforzi disperati, intervenut­a in Libia negli ultimi dieci anni.

Privi di sponde significat­ive siamo dunque schiacciat­i su Bruxelles. Che però, sia chiaro, alla fine delle fini è un modo per dire una cosa alquanto diversa: e cioè che nel nostro futuro c’è senza contrappes­i possibili l’egemonia tedesca. Si spera benevola naturalmen­te, anche se un plurisecol­are e multiforme contenzios­o suggerisce malignamen­te che non si sa mai.

Da qui una certa insofferen­za psicologic­a, che non so se provata dalla nostra diplomazia, ma di certo da una parte della nostra opinione pubblica e della classe politica, la quale riversa anche questo sentimento nel suo generale atteggiame­nto polemico verso l’ue. Insomma, non possiamo più praticare, per parlare brutalment­e, quel «doppio gioco» che ha rappresent­ato così a lungo un tratto importante, anche se non proprio simpaticis­simo, della nostra identità nazionale in politica estera. E l’unica alternativ­a teoricamen­te esistente — divenire i partner più o meno occulti degli Stati Uniti o della Russia per mettere in difficoltà l’edificio europeo a dominanza tedesca — più che i contorni di un’ipotesi vagamente fantapolit­ica prefigura la sostanza di un incubo.

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