DAL GOVERNO «GREEN» UNO STOP CHE FAVORISCE LE CENTRALI A CARBONE
Non solo alta velocità, infrastrutture, inceneritori e gasdotti. Nel lotto delle indecisioni gialloverdi su politiche di sviluppo, energia e ambiente rientra anche il sistema elettrico nazionale. Pochi giorni fa è stata pubblicata la lista dei cosiddetti impianti «essenziali» per la sicurezza delle forniture a famiglie e imprese. Si tratta di quelle centrali elettriche fuori mercato che ricevono un compenso per restare accese e intervenire se in qualche area del Paese si rimanesse al buio. Tenersi gli impianti essenziali, ovviamente, non è gratis: costa ai consumatori italiani 350-400 milioni l’anno (pronta cassa in bolletta) e foraggia diversi impianti che sono inefficienti, inquinanti ed emettono più CO2. Nella lista delle 14 centrali ne compaiono ad esempio tre a carbone (Brindisi, Assemini, Sulcis) mentre altre funzionano addirittura ad olio combustibile o a gasolio. La questione è che si poteva iniziare a uscire da questa situazione già da novembre, con il cosiddetto «capacity market», approvato dall’ue dopo un travaglio di sei anni: in sostanza un sistema per incentivare i produttori che volessero costruire in aree sensibili nuove centrali elettriche più efficienti e meno inquinanti, anche a fonte rinnovabile. Un meccanismo di aste avrebbe assicurato il costo più basso, mentre i parametri ambientali da rispettare il controllo delle emissioni. In due-tre anni si sarebbero potuti vedere i primi risultati. È accaduto invece che a metà settembre l’attuale governo gialloverde abbia bloccato il mercato della capacità per concedersi più tempo e approfondire le proprie posizioni. Argomento legittimo, già utilizzato per Tav, Ilva e Tap. Il timore dell’esecutivo resta quello di favorire i «soliti noti» del mercato nazionale dell’energia e di non centrare obiettivi ambientali ambiziosi. Ma nell’attesa, che si spera non lunga, si va avanti con carbone e gasolio. Non il massimo per un esecutivo «green».