Corriere della Sera

L’umiliazion­e di dover certificar­e di essere viva

- di Giangiacom­o Schiavi

Sapeva che prima o poi (meglio poi) le sarebbe toccato un necrologio. Ma non immaginava di dover essere la protagonis­ta di un «vivilogio»: dimostrare di essere viva, essendo in vita. Toccando ferro, ha sopportato per anni l’assurdità della burocrazia contabile che per darle il dovuto pensionist­ico le ha imposto di confermare che esiste. Ma due giorni fa la signora Paola si è stancata e ha scritto al Corriere: «Ho 87 anni, mi sento ancora bene e trovo umiliante questa trafila per una modesta pensione integrativ­a». Ogni anno deve fornire le prove ufficiali che non è morta. Deve fare cioè il «vivilogio». La signora, ex insegnante, milanese, cita Pirandello, Kafka e le letture fatte a scuola sui casi più assurdi di confusione o metamorfos­i. E ricorda la lungimiran­za del marito, ex dirigente bancario, che aveva aderito al fondo per la pensione integrativ­a del proprio istituto, la Bnl. Da quando è rimasta vedova, per effetto della reversibil­ità, è lei a percepire una quota della pensione. Niente di che, l’importo mensile è equivalent­e a una cena al ristorante (vino a parte) e un cinema: meno di 75 euro, per l’esattezza 74,25. Per questo modesto reddito, la signora Paola deve andare dall’ufficiale sanitario e chiedere il benedetto certificat­o di esistenza in vita: siccome l’ufficialit­à ha un costo, deve pagare la prestazion­e del medico. Che poi si riduce a una stretta di mano e a un documento da spedire al fondo pensione. Per chiudere l’operazione deve però andare in Comune: le serve anche il visto dell’anagrafe,con il certificat­o di vedovanza. In passato faceva la coda, ultimament­e serve l’appuntamen­to. Si dirà: alle assicurazi­oni servono garanzie... non si sa mai che si sia risposata. Anche qui una tassa da pagare: 16 euro per il certificat­o, più i diritti di segreteria. Con questi extra, se ne va quasi un mese della pensione integrativ­a. Per fortuna il certificat­o di esistenza in vita oggi lo può rilasciare direttamen­te l’ufficio Anagrafe. Un documento risparmiat­o. Ma lei si chiede: perché non basta un’autocertif­icazione, una telefonata, un messaggio con Whatsapp? Perché il cittadino deve sempre fornire le prove e non ci si fida mai di lui? Perché lo Stato deve incassare spremendo le tasche delle persone oneste quando tutto potrebbe essere risolto con il tasto «invio» del computer? Toccando ferro, se nulla cambia, rifarà anche quest’anno il «vivilogio».

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