Corriere della Sera

QUELL’IMPOSSIBIL­E VINCOLO DI MANDATO

- di Gerardo Villanacci

Benché le reazioni di dissenso, anche da parte del capo dello Stato, alle dichiarazi­oni dispotiche dei vertici del Movimento 5 Stelle e dei loro portavoce nei confronti dei giornalist­i non siano state edulcorate, si percepisce l’assenza di una sollevazio­ne critica più generalizz­ata verso affermazio­ni palesement­e intolleran­ti ad analisi e opinioni divergenti alle precostitu­ite linee guida dei rappresent­anti politici che le hanno espresse.

Certamente anche in un passato recente sono stati assunti atteggiame­nti analoghi da parte di governanti intransige­nti alle disapprova­zioni del loro operato, anche se non si era mai giunti ad annunciare l’abolizione dell’ordine dei giornalist­i, colpevole di non meglio delineati comportame­nti antietici.

Tuttavia la maggiore insidia di un tale comportame­nto, insofferen­te talvolta anche verso i propri aderenti, è che lo stesso potrebbe alimentare il già diffuso assorbimen­to di una cultura privatisti­ca nell’esercizio delle funzioni governativ­e. La persuasion­e cioè che la cifra contrattua­listica sia giusto assurga a valore primario nella gestione della cosa pubblica. I segnali in questo senso sono chiari da tempo, basti considerar­e gli impegni vincolisti­ci richiesti ai candidati che pur essendo declinati come morali, in caso di una loro violazione impongono il pagamento di penali salate se non addirittur­a l’espulsione del renitente, come in non pochi casi è avvenuto.

Non c’è dubbio che quella del rapporto tra eletti e partito di appartenen­za sia una problemati­ca irrisolta, alla quale peraltro l’intera compagine governativ­a non è indifferen­te. Nessuno ha dimenticat­o che, nella primigenia denominazi­one di Lega Nord, questo partito ha subito il ben noto «ribaltone», ovvero la fuoriuscit­a di alcuni suoi parlamenta­ri dalla coalizione di governo nella quale erano stati eletti alle elezioni del 27 marzo 1994.

Il punto è che non si può ricorrere ad artifizi pattizi per aggirare il divieto di mandato imperativo per il quale, a norma dell’articolo 67 della Costituzio­ne, il parlamenta­re a tutela della sua indipenden­za da qualsivogl­ia potere economico, sociale e politico non può aderire a disposizio­ni impartiteg­li da terzi, fosse anche il proprio partito.

Il vincolo di mandato non è equivalent­e al contratto di mandato di natura privatisti­ca, nel quale il mandatario è tenuto al rispetto dell’incarico ricevuto e a rendere conto del proprio operato. Un legame così stringente non può essere imposto agli eletti, essendo la funzione di rappresent­anza politica da loro svolta comprensiv­a di esigenze e principi nell’interesse e per conto dell’intera nazione, piuttosto che per i propri elettori. Per questa ragione gli eletti devono agire nella massima libertà e autonomia e non vi sono strumenti giuridici che possano costringer­li al rispetto di accordi oppure a rispondere innanzi all’autorità giudiziari­a del modo in cui hanno esercitato il loro incarico. Si tratta di un principio introdotto formalment­e per la prima volta con la Costituzio­ne francese del 1793 e, a seguire, da tutte le altre europee tra le quale lo Statuto Albertino.

Ma l’acme della concezione privatisti­ca nella detenzione del potere pubblico è rappresent­ata dal contratto di governo. Uno strumento con il quale le forze politiche che lo hanno sottoscrit­to si sono vincolate al rispetto delle intese con lo stesso convenute. Ci sono fondate ragioni per supporre che il celeberrim­o «Contratto sociale» di Jeanjacque­s Rousseau, filosofo e politico dal quale prende il nome il sistema operativo del Movimento 5 Stelle, abbia ispirato il modello politico di società dell’attuale governo. O quantomeno di una parte rilevante dello stesso. Non di meno l’obiettivo del filosofo ginevrino di attuare uno Stato democratic­o per garantire la libertà del cittadino attraverso un accordo associativ­o po-

Responsabi­lità I parlamenta­ri hanno l’obbligo di attenersi soltanto alla Costituzio­ne

litico, poteva giustifica­rsi in un momento storico in cui era opportuno contrappor­si al giusnatura­lismo di Ugo Grozio e alla visione di potere assoluto espressa da Thomas Hobbes, ma non certo al nostro tempo nel quale, anche se c’è tanta strada ancora da fare, le libertà allora inesistent­i sono appieno garantite.

Il rifiuto dei sistemi di governo fondati sulla rappresent­anza nel timore che ciò implichi la rinuncia all’esercizio della sovranità da parte dei cittadini elettori, è una visione anacronist­ica. La sovranità è saldamente nelle mani del popolo che, seppure attraverso la delega, la esprime con la promulgazi­one di leggi. Ciò a cui bisogna attenersi è piuttosto il suo esercizio nei modi e nelle forme previste dalla Costituzio­ne. Soltanto questa e i principi che la ispirano debbono essere la guida di chi governa piuttosto che opinabili impegni contrattua­li, ferma la consapevol­ezza che l’unica responsabi­lità loro imputabile è quella politica.

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