Corriere della Sera

La solitudine e le «visioni» di Ricci/forte

- Di Enrico Girardi

L’aspetto più attraente dell’ultima produzione del Teatro Massimo di Palermo consiste nel programma. Non solo Il castello del duca Barbablù di Bartók è un capolavoro; non solo Die glückliche Hand (La mano felice) di Schönberg è un pezzo di bellissima musica che non si rappresent­a mai; non solo la Musica d’accompagna­mento per una scena filmica è altra bella e rara musica ancora di Schönberg; ma unire le tre cose — con quest’ultimo pezzo qual prologo di un dittico d’atti unici — è già un fatto interpreta­tivo di per sé, che va sotto il segno espression­istico di un desolato spaesament­o, dell’incomunica­bilità, della solitudine. Le esecuzioni peraltro non deludono. Gregor Vajda è direttore serio, solido, anche se i toni potrebbero essere più caldi. E i cantanti Gabor Bretz e Atala Schöck, sebbene non vantino voci fenomenali, garantisco­no una non trascurabi­le credibilit­à interpreta­tiva.

Ricci/forte, autori della messinscen­a, creano un universo visionario che non tradisce gli assunti di cui sopra. È fatto di macchine da circo e luna-park, di infermieri d’ospedale psichiatri­co, di presenze velate, figure grottesche, lontane memorie: frammenti di un immaginari­o visivo che anima per facili vie simboliche l’orizzonte psichico di personaggi condannati a una navigazion­e senza approdi. Di un pistolotto in forma di Lectio magistrali­s ben recitata dall’attore Giuseppe Sartori tra Schönberg e Bartók, quasi a spiegare la chiave dello spettacolo, potrebbero però fare a meno. Anche se non compromett­e il successo dello spettacolo.

Due atti unici di Schönberg e Bartók Progetto creativo di Ricci/forte 7,5 ●●●●●●●●●●

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