Noir del poliziotto Cassel: soliti sospetti e false piste
Il pregio e il limite di Black Tide è il personaggio del poliziotto Vincent Cassel, che gioca a fare l’hard boiled, trasandato da trench, ubriacone, villano, arrogante, macho nel senso peggiore, con occhi ridotti a fessura e occhiaie che sembrano macigni. È a lui che capita di indagare sulla scomparsa di un liceale mai tornato da scuola. I genitori sono disperati, hanno anche una figlia disabile, e nell’occhio del ciclone, fra lettere e telefonate, entra il vicino, il prof. Romain Duris, bisessuale, accusato di aver avuto una tresca socratica (galeotto fu Kafka) con l’adolescente missing.
Tutto si complica e si ammala, come nel romanzo Un caso di scomparsa di Dror Mishani da cui ha preso le mosse il regista Érick Zonca (La vita sognata degli angeli, Julia) che centellina la sua ispirazione ma ha anche girato un film tv sulla guerra di Indocina.
Il giallo noir sulla marea nera è un ricalco dello stile Usa, con i soliti sospetti, le false piste, qualche gita al parco d’incontri equivoci gay e la sicurezza che nel tepore casalingo brucia l’inferno con incestuoso e diffuso senso di razzismo. Così escono dal ritratto, oltre al poliziotto pseudo Callaghan che un Cassel troppo sopra le righe rende macchietta (Duris è interiore e misurato), i ritratti di famiglia falsi, complessi, intrighi di vipere a uso e consumo borghese: ipocrisia, ambiguità, falsità unite in nome della violenza maschile. C’è alla fine una sorpresa, con due botti ma si chiude sul dubbio pirandelliano: la verità?