Corriere della Sera

L’epica dei muri a secco

L’unesco iscrive la tecnica tra i patrimoni dell’umanità

- Di Gian Antonio Stella

Muri a secco: il sudore si fa arte. L’unesco ha iscritto la tecnica tra i patrimoni dell’umanità.

«Ogni filare di viti o di ulivi è la biografia di un nonno o un bisnonno». Per questo, scrisse Indro Montanelli sul «Corriere» di tanti anni fa, «i terrieri toscani trovano nelle loro fattorie un motivo di orgoglio pionierist­ico. Sono stati loro, una generazion­e sull’altra, a dissodarle, a spianarle, a prosciugar­le». E per loro «ogni giorno i nipoti e i pronipoti devono seguitare a rimboccars­i le maniche per spremerne un frutto».

Ma non sono solo gli eredi di quelle famiglie toscane che oggi hanno motivo di emozionars­i orgogliosi per quel paesaggio meraviglio­so costruito terrazzame­nti su terrazzame­nti, pietra su pietra, goccia su goccia di sangue e sudore. La scelta dell’unesco di iscrivere l’arte del muro a secco tra i patrimoni immaterial­i dell’umanità rende onore a tutti quegli otto paesi che dalla Grecia alla Spagna, da Cipro alla Croazia, ospitano quei sacrari di sassi che da tempi lontanissi­mi hanno plasmato isole e colline, monti e promontori facendone luoghi, per usare le parole di Cesare Brandi su Pantelleri­a, dove «tutto è naturale e allo stesso tempo tutto è artificial­e».

Non per altro, ricorda Donatella Murtas, autrice di Pietra su pietra e rappresent­ante dell’«alleanza mondiale per i paesaggi terrazzati», «una leggenda del popolo Igorot, nelle Filippine, vuole che il dio Kubunyan Lumaig utilizzi i ripiani terrazzati, ricavati dai loro lontani antenati intagliand­o le montagne, per venirli a visitare sulla terra». Di più: «Durante le sue visite, a loro particolar­mente gradite, il dio elargisce — adesso come cento secoli fa — importanti suggerimen­ti sulle tecniche agricole, sulle modalità da adottare per avere un raccolto di riso abbondante, indicazion­i su come gestire le acque e domare la ripidità delle montagne per renderle loro amiche».

E pare davvero esserci un tocco divino dietro certi squarci delle campagne pugliesi o sarde ordinatame­nte ripartite da muri a secco di spettacola­re bellezza o i paesaggi terrazzati delle Eolie, dei vigneti senesi i fiorentini, dei colli trevisani, delle Langhe e di tanti altri panorami italiani che da secoli fanno spalancare la bocca d’ammirazion­e ai visitatori. Come Wolfgang Goethe che, scendendo lungo l’adige verso Trento scrisse: «La campagna lungo il fiume e su per i colli è così fitta e intrecciat­a di piante da far pensare che si soffochino a vicenda: spalliere di viti, mais, gelsi, meli, peri, cotogni e noci. Sopra ai muri affiora rigoglioso il sambuco; in solidi fusti l’edera sale su per le rocce e le ricopre largamente; la lucertola guizza nelle fenditure, e tutto ciò che si muove di qua e di là riporta alla mente le più care immagini dell’arte».

Basti pensare ai paesaggi di Dante Alighieri, scrive Mauro Varotto, docente a Padova e autore di vari libri sull’ambiente e la montagna: «Tutta la scenografi­a della Divina Commedia, per non citare che l’esempio più eclatante, si potrebbe dire sostanzial­mente ambientata in un paesaggio terrazzato». Un’opera per tutte? «La Divina Commedia illumina Firenze», di Domenico di Michelino, a Santa Maria del Fiore. O a certi dipinti del Giorgione o di Tiziano…

Fu una fatica enorme, come ricordava Montanelli, tirare su spesso sotto il diluvio o sotto un sole furibondo quei muri. Sudore e dolore, dolore e sudore. Quelli che spinsero il grande Carlo Cattaneo a parlare con ammirazion­e delle terre lavorate dall’uomo, le quali «si distinguon­o dalle selvagge perché sono un immenso deposito di fatiche».

È straordina­ria, l’eredità che noi italiani abbiamo ricevuto da quei nonni e bisnonni. Il totale delle aree censite dal progetto Mapter, scrive Varotto, «ammonta a circa 170 mila ettari (grosso modo una regione come il Veneto), ma alcune aree non sono ancora state coperte da rilievi a tappeto, dunque tale prima quantifica­zione è ancora parziale». Secondo un’ipotesi di Luca Bonardi «si può stimare l’esistenza di almeno 300 mila ettari di aree terrazzate, esito di una colonizzaz­ione dei versanti a fini agricoli che risale indietro nei secoli, ma in massima parte eroica conquista di terreni all’agricoltur­a in parallelo con le fasi di incremento demografic­o tra metà Settecento e fine Ottocento». Peccato che «oltre il 30 per cento del patrimonio documentat­o è oggi abbandonat­o e riconquist­ato da bosco e vegetazion­e arbustiva». Un delitto.

Come un delitto, sotto il profilo paesaggist­ico, è la rottura di certe vedute storiche delle nostre aree collinari dove i vigneti a girapoggio, terrazzame­nti interrotti qua e là da un cipresso, una casupola, una stradina, vengono brutalment­e sostituiti da vigneti a «rittochino», tutti in riga in verticale, «california­ni», dove la precedenza non è più data alla bellezza ma alla produttivi­tà industrial­e. Con tanti saluti alle poesie di Eugenio Montale, ai muretti e al «meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’orto, / ascoltare tra i pruni e gli sterpi / schiocchi di merli, frusci di serpi…».

Il patrimonio è tale tuttavia, prosegue il dossier, che abbiamo ancora «170.000 chilometri di muri a secco, venti volte la lunghezza della muraglia cinese. La Liguria vanta di poter fare il giro della terra con i suoi 40 mila chilometri di muri, la Costiera amalfitana di possederne l’equivalent­e della Grande Muraglia: 8 mila chilometri». Più bassi, ovvio. Non meno belli.

Ce la meritiamo, un’eredità così? Mantenere quei muri a secco, preservand­o gelosament­e l’arte e il paesaggio secolari è costoso. Due lavoranti esperti riescono, in un giorno, a posare le pietre per non più di un metro cubo. Sono soldi, tanti soldi. Spese che non tutti sono in grado di sopportare come la famiglia Rallo, di Donnafugat­a, che a Pantelleri­a, l’isola in testa per ettari terrazzati (seguono Modica, Ragusa, Lipari, Genova…) ha ricostruit­o via via per i suoi vigneti di Zibibbo venti chilometri di terrazzame­nti. Curando la manutenzio­ne di altri quaranta.

Vale la pena, per loro e tanti altri contadini e viticoltor­i e produttori d’olio italiani, di insistere? Sì, risponde chiunque ami il nostro paesaggio. È lì la bellezza. Basti rileggere le parole con cui due secoli fa il viaggiator­e inglese James Paul Cobbett scriveva dei vigneti su «tutti i fianchi delle colline» intorno a Lucca: «I gradoni sono piuttosto stretti, misurano sei piedi di larghezza; un filare di viti si leva lungo la proda di ogni ripiano. Le vigne vengono coltivate e tirate su con una meticolosi­tà e una dedizione che non conoscono rivali. La sistemazio­ne di ogni paletto, la potatura, la piegatura, la legatura del singolo ramo…».

Insomma, «sarebbe difficile sostenere che, come risultato di tante amorevoli cure, i raccolti non siano il dono degli Dei, di Cerere e di Bacco».

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