Corriere della Sera

Attilio Forgioli contempora­neo (con memoria)

- di Stefano Bucci

La storia (d’artista) di Attilio Forgioli (Salò, Brescia, 1933) comincia sotto il segno (e lo stile) della Nuova Figurazion­e. Ma da subito la sua è stata, e rimane ancora, una pittura senza compiacime­nto e senza voglia di stupire, votata piuttosto a un grande impegno civile e politico. Un impegno spesso rivolto verso angoli bui della nostra storia: non a caso a Varallo, quest'estate, Forgioli aveva voluto mettere in mostra i suoi dipinti, i suoi disegni, le sue sculture per raccontare l’esecuzione di otto carabinier­i e di otto partigiani il 14 luglio 1944, davanti alla chiesa parrocchia­le di Alagna, alla caduta del regime fascista.

Alla Galleria Federico Rui Arte Contempora­nea di Milano (via Turati 38, federicoru­i.com) fino al 18 gennaio Forgioli ha scelto in qualche modo di mettere in gioco le proprie certezze accettando il confronto proposto dal curatore Emanuele Beluffi con un’artista della nuova generazion­e, Martina Antonioni (Milano, 1986, una laurea in Arti visive e curatorial­i alla Nuova Accademia di belle arti di Milano), a cui sembra accomunarl­o, almeno in apparenza, solo lo stile, per entrambi, «post informale». Ma i frammenti di storia e di vita quotidiana evocati da Forgioli (che oggi vive e lavora tra Milano e l’amatissima Valsesia dei colleghi-amici come Emilio Tadini, Attilio Forgioli (1933), Gianfranco Porta (2014, olio su tela) Pardi, Alik Cavaliere

o Lello Castellane­ta) sembrano prendere nuova potenza dai segni e dai colori molto contempora­nei di Martina Antonioni. Da una parte ecco così i frammenti di memoria di Forgioli e di Residence (2016), Elmetto (2017), Per Alagna (2018), Panni stesi (2018). Dall’altra ecco invece, le «declinazio­ni del presente» di Antonioni e di NO (2017), E non so a chi dirlo (2018), Quando mi dimentico di esistere (2018), La strategia del tiglio (2018), Le donne sono fatte per fiorire (2018).

«Dipingo le cose che voglio vedere. Non so se la mia sia arte, non ha importanza. Quello che conta è che i miei dipinti abbiano lo stesso senso delle pitture dell’uomo nelle caverne, rappresent­ino insomma ciò che siamo» ama dire Forgioli. E poco importa, allora, che «queste cose siano successe o meno»: a contare per l’artista è che siano state capaci di trasmetter­e a lui e alla sua pittura emozioni universali, emozioni felici ma anche spesso dolorose e amare perché la quotidiani­tà di Forgioli sembra essere ormai fatta prima di tutto di ingiustizi­a, prepotenza, rifiuto, disimpegno. Un mix che si ritrova costanteme­nte nella commozione profonda dei suoi dipinti e dei suoi disegni.

Da sempre, come sfondo, Forgioli ama scegliere il suo lago (il Garda) e i paesaggi che lo circondano: «Perché sul lago abbiamo una luce che viene dalle montagne. L’aveva capito nel Settecento il Bellotto, quando dipinse La Gazzada, un quadro con la pianura, le case, il lago e il Monte Rosa». E se, ai tempi in cui frequentav­a l’accademia di Brera, il giovane pittore aveva capito «che anche Kafka doveva avere per forza già visto quei luoghi e quella luce del Nord». Anche da qui è nato quell’attaccamen­to che Forgioli continua a mantenere con il lago e con la Valsesia. Eppure non si è mai voluto staccare da Milano: «Non ho mai sentito per questa città un senso di possesso, ma per me è stata il luogo dove i miei compagni mi hanno trasmesso parole, frasi e pensieri che contano ancora e che mi sono rimasti addosso. Per me Milano, insomma, resta il luogo dove è stato possibile realizzare la mia libertà».

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