L’invenzione dell’alta cima Così la montagna divenne un paesaggio solo interiore
Tra vette e ghiacciai, nacque la ricerca dell’introspezione
Perché le montagne, che svettano fascinose dall’inizio dei tempi, per millenni sono state ignorate? Rispondere che sono «invenzioni» dell’uomo può andare contro il senso comune, ma è così che sono andate le cose. Per vederle abbiamo dovuto proiettare su di esse gli schemi e i modelli di una cultura che si stava avventurando in nuovi domini. Dice bene il titolo della prima sezione della mostra milanese sul Romanticismo: «Una finestra sull’infinito». Al visitatore basta uno sguardo alla luce e alle geometrie dei quadri di Giovanni Battista De Gubernatis o di Giuseppe Pietro Bagetti per rendersi conto che in gioco è una nuova emozione del mondo.
Fu la grande svolta soggettivistica dell’estetica del Settecento a permetterci di guardare con occhi nuovi a scenari che un tempo nessuno si sognava di rubricare nella sfera dell’estetico. Il cammino era cominciato con l’estetica del pittoresco, che richiamava l’attenzione su paesaggi più irregolari e movimentati. Se erano in grado di suscitare emozioni, poco importava che non corrispondessero agli ordinati principi del bello classico. Pensiamo al poemetto Die Alpen del 1729 dello scrittore, scienziato e medico bernese Albrecht von Haller, oa La Nouvelle Héloïse di Rousseau, apparsa una decina d’anni dopo la prima delle numerose traduzioni francesi del poema di Haller. Il romanzo dello scrittore ginevrino recava l’eloquente sottotitolo Lettres de deux amants, habitants d’une petite ville au pied des Alpes: «Ora immense rupi mi pendevano sul capo come rovine. Ora alte e fragorose cascate m’inondavano con il loro fitto pulviscolo».
Ma è evidente che, una volta rotta la diga dell’ordine e della misura, era aperta la strada, che nel giro di pochi anni avrebbe condotto, da una controllata irregolarità, al disordine totale. A partire dalla fine del ‘700 l’orrido paesistico resta orrido, ma vede legittimato il suo ingresso nel regno dell’estetico perché capace di suscitare sensazioni. È in tale prospettiva che le nevi alpine e i ghiacci polari, le livide apparizioni dell’alta montagna e del Nord estremo, si vedono accordato un nuovo diritto di cittadinanza e anzi sono avidamente inseguite dalle turbate soggettività che fanno la loro comparsa tra Sette e Ottocento. Aveva annotato Kant nella Critica del giudizio: «Queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano forze dell’anima al di sopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con l’apparente onnipotenza della natura».
Con la predilezione per la siepe e la lucerna, con le attardate inclinazioni bucolico-georgiche e con la vocazione classicistica e manieristica, che l’ha avviata più al dialogo intertestuale che alla pittura dal vero, la letteratura italiana si mostrò scarsamente sensibile ai nuovi orizzonti del sublime. Da noi mancano i Coleridge, gli Shelley, i Byron, i Friedrich, i Turner, come latitano i ghiacci delle montagne, che pure avevamo dietro casa e che invece gli inglesi venivano a scoprire accollandosi viaggi di centinaia di chilometri. Eppure alla fine qualcosa passò e quel nuovo senso dell’io, che vedeva la natura come uno specchio esaltante, alla fine riuscì a colonizzare anche i nostri inermi autori.
La Sacra di San Michele di Massimo d’azeglio non è il tempestoso transito del Gran San Bernardo del Napoleone turneriano, allo stesso modo che il modesto Colle dell’infinito non sono i ghiacciai dei romantici inglesi. Ma lo spostamento dall’oggetto al soggetto era avvenuto e ormai a contare erano le emozioni. Al punto che il paesaggio poteva anche non comparire neppure, come accade nei 15 endecasillabi sciolti leopardiani, dove l’immaginazione rende superflua la stessa visione. Ciò che sta oltre la siepe sparisce, perché la dimensione dell’infinito il poeta la trova dentro di sé.
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