Corriere della Sera

Gli imprendito­ri sempre più soli: 51 mila aziende chiuse in 3 mesi

Il paradosso di un Paese con tante aziende che non comprende il loro peso nell’economia Aumentano le chiusure e calano le aperture: ma il tema non è centrale nel contratto di governo

- Di Dario Di Vico

I l paradosso dell’italia: un Paese con tante aziende che non conosce il loro peso nell’economia. Oggi l’iniziativa è più difficile di un tempo e non è più centrale nel «contratto» di governo: in tre mesi si sono chiuse più di 51 mila aziende.

«Non conosco nessuno che stia investendo». Edoardo Nesi, scrittore pratese, ha creato la figura di Ivo Barrocciai che ritorna più volte nei suoi libri e gli serve per raccontare i fasti ma anche la solitudine del mestiere di imprendito­re. «Quelli che conoscevo io, a fine serata restavano a guardare i loro macchinari con un senso di orgoglio, vedevano una costruzion­e che funzionava grazie ma anche senza di loro. Ecco questa figura si va perdendo. C’era la sensazione di contribuir­e a un sistema sociale e oggi non più». Secondo Nesi l’imprendito­re medio nella stagione del populismo vive dentro un’incertezza totale, ha persino paura di dire come faceva una volta, «noi si sostiene 50 famiglie». Ma come si è originata questa situazione? La spiegazion­e più semplice sta nella grande discontinu­ità rappresent­ata dal populismo e dall’arrivo di Luigi Di Maio sulla doppia poltrona dello Sviluppo economico e del Lavoro. Se i 5 Stelle avevano creato le premesse del loro straordina­rio successo sostanzial­mente sull’antipoliti­ca e sulla critica violenta della Casta, con lo sbarco al governo la ricerca del capro espiatorio si è spostata e nel mirino sono entrati gli imprendito­ri. Come se il populismo di governo avesse bisogno di tanti Malaussène (il personaggi­o frutto della fantasia di Daniel Pennac, ndr) e li abbia trovati. Certo il crollo del ponte Morandi ha in qualche modo amplificat­o quest’operazione e le feroci polemiche contro la società Autostrade sono state un format che ha visto varie repliche. L’ultima ha avuto come bersaglio le agenzie private del lavoro inchiodate al muro con l’accusa di incarnare «il nuovo caporalato». La parola chiave del racconto di Di Maio è diventata «prenditori» per indicare un imprendito­re che sfrutta, vuole delocalizz­are, famelico di incentivi pubblici. E comunque visto che l’offensiva del bi-ministro è iniziata con il tavolo dei rider possiamo già stilare un primo bilancio: non si è concluso niente di concreto per regolare prestazion­i e diritti dei ciclofatto­rini e nel frattempo però uno dei maggiori player del settore, la tedesca Foodora, ha fatto quello che aveva minacciato: ha venduto e se ne è andata dall’italia.

L’immagine diversa dalla realtà

Campagne politiche a parte, qual è l’immagine degli uomini che fanno impresa? L’ultima ricerca di un certo peso risale al 2015 e l’ha condotta Ipsos per Confindust­ria. Gli italiani catalogano gli industrial­i ad alta visibilità mediatica nella voce «manager», appaiono ricchi e di successo, gran frequentat­ori di giornali e di talk show. L’imprendito­re è invece «uno di noi», vive nella porta accanto, è una figura realmente vicina alla popolazion­e, legata al territorio e alla quotidiani­tà e la spiegazion­e è semplice: 9/10 del sistema produttivo italiano è costituito da imprese inferiori ai 10 dipendenti. Quell’indagine però già segnalava come per effetto della Grande Crisi il consenso verso gli imprendito­ri stesse calando, il 45% pensava che si «fossero involuti», una percentual­e superiore all’analogo giudizio espresso dai tedeschi (33%) e dagli americani (26,1%). «L’imprendito­re appare una figura

L’impasse

Il sociologo Marini: c'è un cortocircu­ito e anche la Lega ha deluso le aspettativ­e

in affanno, la sua posizione privilegia­ta di motore dell’economia è messa in discussion­e sia per gli effetti della crisi sia per la carente valorizzaz­ione da parte delle istituzion­i» scriveva Nando Pagnoncell­i. E annotava come gli italiani sottovalut­assero l’importanza del comparto industrial­e: solo un terzo della popolazion­e citava l’italia tra i tre maggiori Paesi produttori europei. Si metteva in evidenza così una contraddiz­ione lacerante: un Paese con un numero alto di

imprendito­ri che ha però una conoscenza approssima­tiva del peso che rappresent­ano nell’economia nazionale.

La «natalità» in calo

Il populismo si è abilmente inserito in questa contraddiz­ione e l’ha sfruttata nella comunicazi­one d’ogni giorno, l’ha resa pane quotidiano. Via via però la critica si è allargata non solo a «questi imprendito­ri» ma alla funzione stessa del fare impresa. Come sostiene Nesi, i datori di lavoro «non sono nemmeno i migliori, i vincitori di un ideale processo di selezione che li ha dichiarati i più adatti a intraprend­ere: sono, molto sempliceme­nte, quelli che ci hanno provato e ai quali è andata bene».

È legittimo quindi chiedersi se gli italiani si siano stancati persino «di provarci». Per cercare di dare una risposta si possono consultare i dati Unioncamer­e sulla natalità delle imprese. Nel terzo trimestre del ’18 sono spuntate 64.211 imprese, ben 5.500 in meno rispetto al corrispond­ente periodo dello scorso anno e se ne sono chiuse 51.758, circa 2 mila in più del terzo trimestre 2017. Quindi un calo di motivazion­i c’è. Se andiamo a vedere il dettaglio vediamo che calano le imprese artigiane e quelle manifattur­iere e aumentano di molto quelle legate all’alloggio e alla ristorazio­ne. Anche in campo giovanile si segnala un progressiv­o calo di iscrizioni di giovani imprese che ha assottigli­ato lo stock delle attività produttive degli under 35. Giuseppe Tripoli, segretario generale di Unioncamer­e, però avverte: «La riduzione della natalità non è congiuntur­ale, dura da anni anche se a ritmo lento. La crisi ha portato con sé una maggiore attenzione ai rischi, analisi più puntuali del mercato, dei finanziame­nti e delle tecnologie». Ma, aggiunge, tutto ciò non è legato alla nuova stagione politica, «penso che incidano di più la bassa demografia e la fuga all’estero dei giovani talentuosi e più propensi all’avventura».

Il valore del rischio

Possiamo quindi dire che il populismo non ha forgiato ex novo un orientamen­to antagonist­a nei confronti dell’impresa ma in qualche maniera ha cavalcato un’onda (negativa) provenient­e dalla Grande Crisi? Un sondaggio Swg lo confermere­bbe: aveva segnalato qualche mese fa, interrogan­do un campione di 1.100 maggiorenn­i, come l’impiegato pubblico con il 28% fosse ridiventat­o il lavoro sognato dagli italiani con un’impennata di 13 punti rispetto a soli due anni prima. E l’economista Enzo Rullani sostiene che è il concetto di rischio oggi ad essere messo in discussion­e e proprio quando sarebbe necessario investire e innovare. «È paradossal­e ma adesso avremmo bisogno di una socializza­zione dello spirito imprendito­riale e anche i lavoratori e i territori dovrebbero in qualche modo partecipar­e. Tutti dovrebbero diventare intraprend­enti». Agli imprendito­ri si deve imputare non di continuare a rischiare ma «di non essere mai diventati una borghesia innovatric­e e di aver lavorato ognuno per sé». Rullani pensa che il populismo sbagli a rimettere in campo lo Stato come soggetto che risol- ve la disuguagli­anza risarcendo i disoccupat­i, «il pubblico deve promuovere la mobilità sociale a monte credendo nella scuola». La caduta dello spirito imprendito­riale è una piccola tragedia anche perché stiamo assistendo alla trasformaz­ione delle grandi organizzaz­ioni: sempre più snelle, con poco personale, avranno invece attorno a sé una galassia di collaborat­ori chiamati a condivider­e il rischio. È proprio questa trasformaz­ione che sembra nel mirino del populismo che invece sogna nostalgica­mente una sorta di ritorno al passato, al fordismo in un Paese solo e allo Stato che risarcisce i cittadini dei torti subiti dal mercato e dagli imprendito­ri.

Le accuse degli industrial­i

Gli industrial­i questi slittament­i della cultura politica dominante li hanno captati e subìti con crescente disagio. Marco Bonometti, presidente di Confindust­ria Lombardia ha sintetizza­to lo stato d’animo della categoria evocando il Titanic «siamo come delle vedette sulla tolda della nave mentre tutti sono in sala ristorante a godersi la cena». E il collega Luciano Vescovi di Vicenza ha rincarato la dose denunciand­o che il governo «sta giocando sulla nostra pelle». Ha sorpreso tutti poi che il presidente Carlo Bonomi nell’assemblea di Assolombar­da abbia voluto ricordare «le 700 vite spezzate» di imprendito­ri caduti durante gli anni della recessione, ammettendo che le associazio­ni avrebbero dovuto fare di più, farli sentire parte di una comu- nità. Incrociand­o le dita oggi non si segnalano recrudesce­nze di questo tipo ma la solitudine e la sindrome di Malaussène si fanno sentire pesantemen­te in un momento in cui fare l’imprendito­re è oggettivam­ente più difficile di ieri. Il sociologo Daniele Marini nei suoi studi ha individuat­o proprio il 2008 come lo spartiacqu­e e ha sottolinea­to tre fattori che fanno la differenza tra ieri e oggi. L’aumentata competizio­ne sul mercato, frenetico e volatile, incerto e globale che rende più incerta l’esperienza imprendito­riale. La necessità di avere una preparazio­ne profession­ale di gran lunga più elevata rispetto agli anni passati. E infine la concorrenz­a sleale di chi non rispetta le regole. Aggiungiam­o l’ostilità del populismo di governo «e si crea il cortocircu­ito tra un sistema produttivo costretto a correre e provvedime­nti che vanno nella direzione opposta». Del resto, aggiunge Marini, basta rileggere il contratto di governo, «l’impronta culturale è lontana dal mondo della produzione, parole come artigiano, operaio, impresa non ricorrono quasi mai». Non c’è da stupirsi quindi se gli imprendito­ri si sentano soli. «Anche la Lega li sta deludendo, le avevano assegnato un mandato di rappresent­anza ma si vedono non corrispost­i».

Il populismo guarda al passato ma il problema è la caduta dello spirito imprendito­riale I giovani sognano di nuovo l’impiego pubblico: lo auspica il 28%, quasi il doppio di due anni fa

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy