L’INVERNO HA PLASMATO L’UMANITÀ
Il saggio di Vanoli (il Mulino)
Il clima della storia cambia. Il risveglio di Gaia, la Terra ferita dalle attività umane, si manifesta con il riscaldamento globale. Non è una rivolta contro il genere umano: è un atto di salutare memoria, un modo di riportarci al suolo. Il riscaldamento globale ci ricorda, purtroppo con modalità drammatiche, che siamo esseri terrestri, abitanti di un pianeta che ha scandito la storia anche e soprattutto attraverso i climi. Freddi, caldi, temperati, cangianti. Un concerto di stagioni che ha ritmato i tempi e i luoghi dell’animo e dell’attività umana.
Con Inverno. Il racconto dell’attesa (il Mulino, pagine 209, 15), primo libro di una tetralogia sulle stagioni, Alessandro Vanoli ci invita a superare quella che Amitav Ghosh ha definito La grande cecità (Neri Pozza) ovvero l’incapacità, anche della letteratura, di raccontare il cambiamento climatico. Vanoli però, a differenza di Ghosh, lavora di fioretto e non di spada. Inverno non è un J’accuse contro l’inquinamento o i danni dell’antropocene, piuttosto una lunga lirica che ci fa (ri)scoprire l’importanza del freddo nella genesi dell’umanità, nelle pagine della grande e della piccola storia, nelle relazioni interculturali e interpersonali.
«A suo modo fu il freddo a fare di noi quello che siamo, a spingere l’umanità alla conquista del mondo», scrive Vanoli. Le glaciazioni permisero a Homo sapiens di camminare fin nelle Americhe e in Australia; la fine dei ghiacci aprì la storia della domesticazione di piante, animali ed esseri umani. Come affrontavano l’inverno i Greci e i Romani? Che facevano i monaci amanuensi nei mesi invernali, quando l’inchiostro si gelava e le mani tremavano? Come si poteva vivere un’intera stagione (quasi) sempre al freddo — è una storia vicina, che arriva ai nostri nonni e bisnonni? Quando la rappresentazione del bianco invernale s’impose nell’arte? L’interesse di Inverno non è quello di approfondire un’epoca, una civiltà o un evento, ma di svelare uno degli aspetti della tessitura della storia, il clima. Non c’è determinismo in questo libro che fonde il saggio e il racconto, il rigore (altro termine «climatico») dello storico e il calore del letterato: c’è un’esigenza, ancora non abbastanza sentita, di riappropriarci di una dimensione vitale, quella delle stagioni che si alternano.
Lo stile meticcio di Vanoli alterna il passato, il tempo della storia e degli inverni che hanno contribuito a fabbricare l’umanità; e il presente, una sorta di «presente etnografico» (come lo chiamano gli antropologi), ovvero un racconto in prima persona di sé (gli inverni di Vanoli), ma anche un racconto in prima persona degli abitanti di epoche e culture diverse, del modo in cui hanno vissuto i loro inverni. Parafrasando un famoso antropologo, Bronislaw Malinowski, che insegnava ai suoi colleghi a mettersi nei panni degli altri attraverso l’osservazione partecipante, Vanoli cerca di cogliere l’inverno «dal punto di vista dei nativi». Un altro antropologo, Marcel Mauss, ha raccontato in modo mirabile l’inverno degli Esquimesi (oggi si chiamano Inuit): le variazioni stagionali in queste popolazioni del nord segnavano le forme della vita sociale (dispersione in inverno, vita comunitaria in estate), i tratti della persona (individuale in estate, collettiva in inverno), le famiglie (nucleari in estate, estese in inverno) e persino i tratti del rito e della religione (dai culti privati estivi ai grandi riti comunitari invernali). «L’esercizio della storia serve anche a questo: a rimettere a posto i pezzi. A raccontarci di cosa siamo fatti e chi, probabilmente, nel profondo siamo ancora».