Il Qatar sbatte la porta Addio (e guerra) all’opec
Il cartello perde peso, mentre deve fronteggiare il barile a 50 dollari
Il «piccolo» Qatar semina lo scompiglio nell’opec dichiarando di voler uscire dal cartello dei Paesi produttori di greggio dall’inizio del prossimo anno. L’annuncio di Saad al-kaabi, ministro del petrolio dell’emirato, non sarà privo di conseguenze, immediate e di più lungo periodo. E anche se è arrivato ieri un po’ a sorpresa non è di certo incomprensibile: è dall’estate dello scorso anno che il Qatar è oggetto di forti pressioni politiche e di un embargo commerciale da parte dei suoi vicini mediorientali Egitto, Bahrain, Arabia Saudita e Emirati (questi ultimi due membri dell’opec), che lo accusano di sostenere il terrorismo e l’iran, a sua volta arcirivale storico del Regno saudita.
In termini strettamente «petroliferi» l’addio del Qatar non cambierebbe molto nei rapporti di forza interni ed esterni del cartello, visto che l’emirato produce 0,6 milioni di barili al giorno contro i 3233 di tutto l’opec e i 100 milioni mondiali. Ma la tempistica della mossa avviene proprio a ridosso di un delicato vertice dei Paesi produttori (dopodomani a Vienna) che deve rispondere alle nuove tensioni del prezzo del barile, crollato in poche settimane da quasi 90 dollari a poco più di 50 . La necessità di tagli e di ritocchi alle quote dei singoli Paesi per far risalire i prezzi è sempre stata fonte di contrasti e divisioni, che si ripresenteranno questa volta acuite dai nuovi sviluppi.
Il Qatar rimane comunque un attore pesante nello scenario del Golfo. Non solo perché ospita un’importante base militare Usa, ma soprattutto perché — pur contando meno sul fronte del petrolio — è un gigante su quello del gas naturale, di cui è il primo esportatore mondiale. E nel gas divide con il dirimpettaio Iran uno dei maggiori giacimenti sottomarini del pianeta, il South Pars (o North Dome, a seconda del punto di vista).
In prospettiva, però, è l’esistenza della stessa Opec che inizia ad essere messa in discussione. La geopolitica dell’energia è ormai cambiata: il cartello, da solo, non è più in grado come nei decenni passati di indirizzare i mercati e di assicurare la stabilità dei prezzi e degli incassi che nutrono i bilanci dei diversi Petro-stati. Dopo la crisi degli anni 2014- 2016, quando il barile è arrivato alla soglia dei venti dollari, solo un accordo con i Paesi non-opec (il cosiddetto «Opec-2» che ha come principale interlocutore la Russia) ha consentito di far risalire le quotazioni del barile. La stessa Arabia Saudita, in tempi recenti, avrebbe addirittura studiato le conseguenze di uno scioglimento dell’accordo tra i 14 Paesi per avere mani più libere, una circostanza poi smentita dal ministro saudita dell’energia, Khalid al-falih.
L’«opec-2», che ha la sua ragion d’essere nel nuovo asse energetico e politico tra Riad e Mosca, è servita sostanzialmente ad arginare gli effetti del ritorno massiccio del petrolio Usa sui mercati mondiali. Dall’anno scorso gli Stati
Uniti, che hanno beneficiato della rivoluzione tecnologica dello «shale oil», sono di nuovo e ufficialmente i maggiori produttori mondiali, proprio davanti ad Arabia Saudita e Russia, secondo e terzo produttore. E il presidente Donald Trump, a colpi di tweet, non ha smesso di pungolare i sauditi sulla necessità di mantenere bassi i prezzi di benzina e gasolio.
La partita geopolitica, insomma, pare essere in mano ai «big» riconosciuti. Il collante dell’opec del passato – mettere da parte le divisioni politiche per i vantaggi economici – ha perso mordente. E il Qatar potrebbe essere il primo passo.