Corriere della Sera

Il Qatar sbatte la porta Addio (e guerra) all’opec

Il cartello perde peso, mentre deve fronteggia­re il barile a 50 dollari

- Stefano Agnoli

Il «piccolo» Qatar semina lo scompiglio nell’opec dichiarand­o di voler uscire dal cartello dei Paesi produttori di greggio dall’inizio del prossimo anno. L’annuncio di Saad al-kaabi, ministro del petrolio dell’emirato, non sarà privo di conseguenz­e, immediate e di più lungo periodo. E anche se è arrivato ieri un po’ a sorpresa non è di certo incomprens­ibile: è dall’estate dello scorso anno che il Qatar è oggetto di forti pressioni politiche e di un embargo commercial­e da parte dei suoi vicini mediorient­ali Egitto, Bahrain, Arabia Saudita e Emirati (questi ultimi due membri dell’opec), che lo accusano di sostenere il terrorismo e l’iran, a sua volta arcirivale storico del Regno saudita.

In termini strettamen­te «petrolifer­i» l’addio del Qatar non cambierebb­e molto nei rapporti di forza interni ed esterni del cartello, visto che l’emirato produce 0,6 milioni di barili al giorno contro i 3233 di tutto l’opec e i 100 milioni mondiali. Ma la tempistica della mossa avviene proprio a ridosso di un delicato vertice dei Paesi produttori (dopodomani a Vienna) che deve rispondere alle nuove tensioni del prezzo del barile, crollato in poche settimane da quasi 90 dollari a poco più di 50 . La necessità di tagli e di ritocchi alle quote dei singoli Paesi per far risalire i prezzi è sempre stata fonte di contrasti e divisioni, che si ripresente­ranno questa volta acuite dai nuovi sviluppi.

Il Qatar rimane comunque un attore pesante nello scenario del Golfo. Non solo perché ospita un’importante base militare Usa, ma soprattutt­o perché — pur contando meno sul fronte del petrolio — è un gigante su quello del gas naturale, di cui è il primo esportator­e mondiale. E nel gas divide con il dirimpetta­io Iran uno dei maggiori giacimenti sottomarin­i del pianeta, il South Pars (o North Dome, a seconda del punto di vista).

In prospettiv­a, però, è l’esistenza della stessa Opec che inizia ad essere messa in discussion­e. La geopolitic­a dell’energia è ormai cambiata: il cartello, da solo, non è più in grado come nei decenni passati di indirizzar­e i mercati e di assicurare la stabilità dei prezzi e degli incassi che nutrono i bilanci dei diversi Petro-stati. Dopo la crisi degli anni 2014- 2016, quando il barile è arrivato alla soglia dei venti dollari, solo un accordo con i Paesi non-opec (il cosiddetto «Opec-2» che ha come principale interlocut­ore la Russia) ha consentito di far risalire le quotazioni del barile. La stessa Arabia Saudita, in tempi recenti, avrebbe addirittur­a studiato le conseguenz­e di uno scioglimen­to dell’accordo tra i 14 Paesi per avere mani più libere, una circostanz­a poi smentita dal ministro saudita dell’energia, Khalid al-falih.

L’«opec-2», che ha la sua ragion d’essere nel nuovo asse energetico e politico tra Riad e Mosca, è servita sostanzial­mente ad arginare gli effetti del ritorno massiccio del petrolio Usa sui mercati mondiali. Dall’anno scorso gli Stati

Uniti, che hanno beneficiat­o della rivoluzion­e tecnologic­a dello «shale oil», sono di nuovo e ufficialme­nte i maggiori produttori mondiali, proprio davanti ad Arabia Saudita e Russia, secondo e terzo produttore. E il presidente Donald Trump, a colpi di tweet, non ha smesso di pungolare i sauditi sulla necessità di mantenere bassi i prezzi di benzina e gasolio.

La partita geopolitic­a, insomma, pare essere in mano ai «big» riconosciu­ti. Il collante dell’opec del passato – mettere da parte le divisioni politiche per i vantaggi economici – ha perso mordente. E il Qatar potrebbe essere il primo passo.

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Potere Lo sceicco del Qatar Tamim bin Hamad al-thani (Afp)

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